L’Italia di oggi nelle poesie di Anna Mahjar-Barducci

di Stefania Ragusa

Anna Mahjar-Barducci è italo-marocchina, nata a Viareggio, vissuta in Pakistan, oggi risiede a Gerusalemme con il marito cresciuto in Romania e la figlia italo-israeliano. Anna è scrittrice e giornalista. Corriere delle Migrazioni l’aveva conosciuta anni fa, grazie a un piccolo prezioso volume, La mia scuola è il mondo, che parlava di bambini, scuola e mixité.
Oggi Anna ritorna con un una nuova pubblicazione. Idenità italiana (Edizioni Melagrana) è un libro di poesia che a noi ha fatto l’effetto di un reportage fotografico senza immagini, costruito solcando la terra con le parole, scavando nella storia, nella cronaca e nell’esperienza quotidiana. Ha il grande merito di occuparsi dell’abusato concetto di italianità rimarcandone il carattere fluido, dinamico, in costante e necessaria evoluzione.

Oggetto del racconto è l’Italia contemporanea, fotografata nella sua frastagliata fenomenologia. Lingue diverse, fenotipi diversi, fedi e tradizioni diverse, che si incontrano come accaduto già varie volte nella storia dello Stivale. C’è una maggiore varietà di latitudini, è vero. C’è un passo più veloce. C’è che oggi viviamo nell’era di internet e tutta la comunicazione è accelerata e globalizzata. Ma la staticità la cristallizzazione, la purezza (nel senso cliffordiano) non sono mai appartenuti all’Italia e in realtà a nessun paese.

Anna evidenzia il tutto già dalle prime pagine del testo, proponendo al lettore un elenco (non esaustivo, per carità ma rappresentativo) di parole italiane di uso comune derivate da qui e là: dall’olandese, dall’azteco e dall’arabo, dallo spagnolo, dal gotico e dall’ebraico… E poi ricorda come fino a pochi anni fa nella penisola non ci fosse nemmeno una lingua unitaria, come evidenzia l’anneddotica della grande guerra: al fronte i soldati provenienti da regioni diverse spesso non riuscivano a capirsi tra di loro e si “scambiavano” reciprocamente per stranieri. Altro che l’italianità squadrata, inerte e delimitata da quattro punti (la pizza, il tifo per la nazionale, l’accento romanesco e la prima comunione) che una certa narrazione – rozza e ahimé non esclusivamente sovranista – insiste a propinare. L’italianità, ammesso che esista, ammesso che abbiano un senso tutti i discorsi sulle identità nazionali, è quanto di più fluido, cangiante, sincretico, multicolore si possa immaginare.

 

A seguire, due testi tratti dal libro. Il primo, a pagina 21:

Io Sono
Leonardo Da Vinci, il più grande genio dell’umanità.
Io Sono
Primo Levi, catturato dai nazifascisti.
Io Sono
Le sorelle Fontana, le madri della moda italiana.
Io Sono
Aldo Capitini, il Gandhi italiano.
Io Sono
Hina, uccisa da mio padre per volere essere libera.
Io Sono
Il bambino Rom, apolide, nato a Torino.
Io Sono
Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la Medicina.
Io Sono
Antonio Gramsci, politico italiano di origine albanese.

Il secondo, a pagina 37, si intitola (Melting) Pot Italiano

A Napoli, quando assaporo un babà
sento l’odore pieno e spesso del rum,
caduto per sbaglio
al re polacco Stanislao.
A Roma, quando mangio il carciofo alla giudia,
rivedo le massaie ebree,
mentre preparano la mammola romana,
per interrompere il digiuno di Yom Kippur.
Vado verso Nord-Est,
ritrovo l’eredità austro-ungarica
nel pentolone del gulash friulano.
Verso Nord-Ovest,
mi riscalda lo stufato della doba cuneese
dall’accento francese.
Riscendo verso Sud, tra il Molise e la Sicilia,
per gustare gli shtridhelat albanesi,
con la pasta lunga
tirata pazientemente a mano
esaltata da sughi semplici
e da erbe spontanee.
Mi fermo a Trapani,
per il cous-cous della mia infanzia
dai sapori nord-africani.

Il modello che ha in mente Anna è lontano dalla “coesistenza pigra di universi chiusi gli uni gli altri e che recludono ciascuno i propri membri”, stigmatizzato dall’antropologo Marc Augé. Non è fatto di piccoli mattoncini conrapposti in indifferenza e separazione e nemmeno di negazione delle differenze. E’ piuttosto integrazione, parola spesso ingiustamente vituperata, perché considerata sinonimo di assimilazione, e che già nella sua etimologia rivela invece ottime intenzioni: completare, rendere intero, mettere insieme le parti migliori.
La scuola in tutto questo, come già accaduto in passato, è chiamata a svolgere un ruolo determinante. Per riuscirci però deve recuperare il suo baricentro sociale ed educativo. O, meglio, chi le ruota attorno, ossia la società tutta, dovrebbe aiutarla a ritrovare il suo baricentro sociale ed educativo, ricominciando per esempio a riconoscerle la sua importanza.

(Stefania Ragusa – direttore@corrieredellemigrazioni.it)

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