Liu Bolin, zoom sulla migrazione

di Stefania Ragusa

«Siamo tutti uguali». Liu Bolin usa una frase piccola, ineccepibile, per chiosare il suo concetto di umanità. Con una cifra artistica ormai nota al pianeta – un mix virtuoso di bodypainting, performance e fotografia – Bolin affronta questioni universali, che ci coinvolgono tutti, in prima persona. Proprio come lui dipinge sé stesso, sugli sfondi di scatti dai significati multistrato. Non fa eccezione il tema dell’immigrazione, che il performer cinese della fotografia mimetica ha declinato con il concept Migrants, esposto in questi giorni al Mudec di Milano, in occasione della mostra Visible Invisible, aperta al pubblico fino al prossimo 15 settembre. Obiettivo: sensibilizzare. «Con l’arte possiamo dar modo di discutere dei problemi che abbiamo di fronte, per risvegliare l’attenzione delle persone. In fondo, portare l’attenzione degli individui sulla realtà e cambiarne lentamente la mentalità è la vera responsabilità che hanno gli artisti e le opere da loro prodotte».

Il ciclo Migrants comprende sei fotografie scattate a Catania nel 2015. In due foto: The Hope (La speranza) e Hiding in the city – GIAMMARCO AU 1168, Bolin ha indossato il suo consueto indumento da lavoro – una tuta-uniforme a metà strada tra il civile e il militare, che simbolicamente lo omologa a qualsiasi altro cittadino – e si è fatto dipingere, solitario e immobile, come parte della scena, riportandone sul corpo un dettaglio. Le due location, selezionate presso il porto di Catania, mettono al centro i cosiddetti “barconi della speranza” con cui sono arrivati in Italia migranti africani. «In Hope mi sono mimetizzato con una barca che nel 2013 li ha portati qui. A bordo di questo peschereccio c’erano anche sei bambini egiziani annegati durante il viaggio». E la scelta del luogo conferma l’importanza imprescindibile che Bolin affida sempre a questo elemento. «Prima di optare per una location, prendo in considerazione i temi sociali che quel luogo racchiude in sé», spiega l’artista per descrivere in generale l’iter necessario a realizzare qualsiasi opera. «Medito in sostanza sui messaggi che tramite un posto potrei trasmettere per avere un impatto sulla società. Individuare lo spazio giusto è fondamentale per comunicare il mio messaggio. In questa prima fase, se si presentano degli ostacoli, cerco di superarli, perché il luogo ha la priorità su tutto».

Nel ciclo Migrants, oltra a ritrarsi in versione camaleontica su una sezione dello sfondo iconico, Bolin ha coinvolto in altri quattro scatti giovani migranti africani alloggiati in diversi centri di accoglienza temporanea in Sicilia. Per realizzare Memory Day, ha dipinto il corpo di 200 di loro con un color ocra sabbia e li ha fatti sdraiare, uno accanto all’altro, sulla stessa spiaggia su cui sono approdati. «Possono sembrare cadaveri, ma il mio intento era descriverne l’arrivo e l’inizio del loro futuro. Nello scatto alcuni migranti hanno gli occhi aperti e guardano in avanti come se stessero scrutando il futuro. Sono convinto che gli africani lascino il loro continente proprio per la speranza di avere un avvenire migliore», spiega Bolin. Memory Day è uno scatto «struggente», come lo definisce la curatrice Beatrice Benedetti, di Boxart Gallery. «È una distesa umana paradossalmente tra la vita e la morte. In questo caso sono superstiti, la grande maggioranza delle persone fortunatamente si salva, ed è proprio il segnale che Liu Bolin voleva dare». In mostra nello spazio Mudec Photo si trova anche il video di 11 minuti che racconta il backstage del progetto e presenta uno stralcio di toccanti interviste ai ragazzi migranti coinvolti nel concept. Bellissimi gli zoom sui loro sguardi, tra il fiero e il divertito. Sguardi di speranza e di soddisfazione nel partecipare a un’opera collettiva su di loro. Bellissime anche le sequenze video dei ragazzi dell’Accademia di Catania che, accanto al team tecnico-professionale al seguito di Bolin, hanno partecipato al progetto dipingendo con gesti lenti, delicati e rispettosi i corpi e i volti dei migranti africani.

Migrants prende il nome dallo scatto omonimo in cui Bolin ha fatto letteralmente scomparire una ventina di migranti davanti a un peschereccio. «È un barcone su cui sono state trasportate 400 persone. Difficile persino immaginare la pressione fisica e psicologica che subiscono uomini e donne che affrontano tali situazioni. Con questa opera ho voluto attirare l’attenzione sull’evento che si ripete, dimostrando l’imperfezione dell’umanità. La scomparsa dei loro corpi evoca la relazione evanescente tra la vita e la morte. Il mio intento è però di privilegiare l’attenzione sulla vita e dare speranza», afferma Bolin.

«Blue Europe è lo scatto che forse rappresenta meglio la speranza e il senso di integrazione», spiega Beatrice Benedetti. I corpi atletici e dolenti dei ragazzi sono stati dipinti di blu, con lo stesso pantone della bandiera dell’Unione Europea, in una posa che ricorda una pietà contemporanea. «Volevo dimostrare il cambiamento, ovvero come questa generazione presente possa trasferirsi dall’Africa all’Europa e vivere felice. Gli africani possono godere il frutto di centinaia di anni di progresso europeo e convivere benissimo pur provenendo da culture diverse e da Paesi con un grado di sviluppo diverso», dice Bolin.

Ed è proprio il futuro che dà il titolo al quinto lavoro. È ripreso dalla scritta dipinta in bianco e ripetuta su torsi nudi. Una parola che dichiara sul corpo dei migranti il vero motivo per cui hanno lasciato il loro Paese: la ricerca di un nuovo futuro. «Ho scritto la parola Future sui corpi per dimostrare come ogni persona, per raggiungere migliori condizioni di vita, sia disposta ad affrontare ogni tipo di avventura, anche la più pericolosa, mettendo persino a rischio la vita. Io credo che in questa terra i migranti possano vivere bene. In Italia gli africani possono trovare una situazione migliore, un trattamento migliore, educazione e rispetto. Non so quale sarà il futuro dei migranti, ma credo che in ogni caso sarà migliore e colorato», dice Bolin.

In mostra al Mudec, il ciclo Migrants si affianca a un’altra quarantina di opere dell’artista. Tra queste Hiding in Italy, che comprende anche un inedito della Pietà Rondanini scattato al Castello Sforzesco di Milano e la fotografia della Sala di Caravaggio, mai esposta prima e realizzata nel 2019 alla Galleria Borghese di Roma. La serie privilegia sfondi legati al patrimonio artistico-italiano capace, nella visione dell’artista, di formarci come individui. E poi svettano scatti della serie Hiding in the City nata dall’urgenza di protestare contro la forza del governo cinese che, nel 2005, per far spazio al progresso e al nuovo, demolì il villaggio Suojia – a nord-est di Pechino, dove Bolin, come altri artisti, aveva il suo studio – distruggendo il mondo alle spalle del performer e, insieme, la tradizione e l’identità di un popolo. In mostra, inoltre, il ciclo Shelves – scaffali di supermercati, colmi di beni di largo consumo, in cui ognuno di noi finisce per identificarsi e annullarsi – e l’immagine scattata al Mudec tra i reperti della collezione permanente del museo, esposta insieme all’uniforme utilizzata per la performance e un video che documenta l’universo nascosto dietro ogni scatto fotografico. Prima del clic, infatti, c’è un mondo. Lo studio del luogo, l’installazione, la pittura, la performance dell’artista: un processo di realizzazione che dura anche giorni, a dimostrazione di come nulla sia mai frutto di un caso, ma la sintesi di un processo creativo complesso. Pieno di significati pronti a farci leggere tra le righe della realtà.

Chiara Corridori

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