di Marco Trovato – direttore editoriale Rivista Africa
Le più gravi crisi internazionali degli ultimi anni – la pandemia del Covid e la guerra in Ucraina – hanno messo a nudo le fragilità delle economie africane. Nel 2020-21 la chiusura dei confini ha provocato la perdita di dieci milioni di posti di lavoro che dipendevano dai traffici aerei e marittimi. Le misure anti-contagio imposte dalle autorità, poi, hanno colpito pesantemente i commerci di strada e le attività del settore informale, ovvero quei lavori non regolamentati da leggi o contratti (pertanto non tassati) da cui dipende la maggior parte della popolazione subsahariana. L’assenza di tutele e di welfare ha causato enormi difficoltà e sofferenze.
Ora la guerra tra Mosca e Kiev ha fatto balzare il prezzo del grano e dei cereali. Le difficoltà di approvvigionamento – unite al boom dei costi delle spedizioni – stanno causando un aumento vorticoso dei prezzi al consumo in un’area geografica in cui il 40% degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà. Entro fine anno 41 Paesi africani vedranno le proprie valute e il potere d’acquisto deprezzati a causa dell’inflazione. Ma la congiuntura sfavorevole potrebbe anche accelerare le riforme auspicate da tempo, spingendo i leader africani a imboccare con decisione la strada di uno sviluppo più inclusivo, stabile, sostenibile. Qualcosa si muove. Le principali istituzioni finanziarie del continente hanno annunciato il lancio dell’Africa Trade Exchange, una piattaforma per l’approvvigionamento in comune di merci di base all’ingrosso. Obiettivo: diversificare i fornitori, dipendere meno dalle crisi internazionali, e contrattare prezzi migliori per le forniture strategiche.
Altra buona notizia: finalmente hanno riaperto i cantieri delle grandi opere per la costruzione di strade, ferrovie, porti, aeroporti, logistica. La rete africana dei trasporti e delle comunicazioni è clamorosamente arretrata: nell’epoca coloniale le infrastrutture privilegiarono il traffico con l’Europa trascurando i collegamenti interni. Oggi è tempo di colmare il gap. L’Area africana di libero scambio continentale – entrata in vigore da più di un anno fra i 54 Paesi africani – punta a favorire gli scambi commerciali all’interno del continente, oggi fermi al 17% del volume totale (in Europa e in Asia il commercio intracontinentale è pari rispettivamente al 70% e al 60% di quello totale). Il mercato unico africano significa un cambio di paradigma: potrebbe rappresentare un volano per le economie e per l’occupazione, favorendo lo sviluppo del settore manifatturiero e la modernizzazione dell’agricoltura, aumentando la capacità di resistenza ai futuri shock economici.
L’Africa ha terre agricole e risorse sufficienti non solo ad assicurare il fabbisogno della sua popolazione ma a sfamare il pianeta intero. Eppure ancora oggi dipende da importazioni e aiuti alimentari. Non solo. Il continente vanta enormi ricchezze energetiche e straordinarie potenzialità legate alle rinnovabili, ma paradossalmente il 60% dei suoi abitanti vive al buio senza elettricità. Le fragilità e le contraddizioni emerse in questi mesi ricordano una volta di più l’urgenza di cambiare modello di sviluppo. L’economia africana finora è dipesa totalmente da esportazioni di metalli strategici, idrocarburi, prodotti naturali grezzi. Le finanze dei governi non possono più sottostare a dinamiche di mercato e a prezzi controllati dalle potenze egemoni. L’Africa uscirà migliore da questa crisi se saprà imparare la lezione, credendo in sé stessa. E se noi le permetteremo finalmente di essere padrona del suo destino.
Editoriale del numero di settembre-ottobre della Rivista Africa