di Uoldelul Chelati Dirar
I confini degli Stati imposti dalle potenze coloniali europee hanno rappresentato per lungo tempo ferite che laceravano il continente. Esattamente sessant’anni fa i leader del continente iniziavano il lento ma storico cammino per il superamento di quelle frontiere, che avrebbe portato alla creazione dell’Unione Africana (con le sue luci e le sue ombre)
Il 25 maggio 1963, l’imperatore etiope Haile Selassie convocò ad Addis Abeba una riunione cui parteciparono 32 Stati africani da poco liberatisi del dominio coloniale. E là si decise di dare vita all’Organizzazione per l’unità africana (Oua), con sede ad Addis Abeba. Per cogliere la rilevanza dell’evento, basti ricordare che nemmeno trent’anni prima erano solo i due Paesi indipendenti: Etiopia e Liberia.
Nata sulla scia dell’entusiasmo che aveva accompagnato il complesso e non ancora concluso processo di decolonizzazione, l’Oua aveva le sue radici nel panafricanismo. Emerse subito, tuttavia, la spaccatura tra due interpretazioni di quella filosofia: una più radicale (conosciuta come Gruppo di Casablanca), che voleva una rapida e sostanziale applicazione dei principi del panafricanismo con un’effettiva unificazione politica ed economica del continente, e l’altra più pragmatica (il Gruppo di Monrovia), che proponeva un’applicazione più limitata di tali principi, preservando gli ambiti di sovranità dei neonati Stati africani.
L’Oua si concentrò su due obiettivi strategici: la solidarietà panafricana, intesa come pieno sostegno alla lotta per l’indipendenza dei territori ancora soggetti al giogo coloniale (colonie portoghesi, Namibia e Sudafrica), e la stabilità politica all’interno del continente, come reso chiaro dall’introduzione nella Carta costitutiva dell’Oua del principio di intangibilità dei confini coloniali. Decisione, questa, dolorosa e apparentemente contraddittoria, ma intesa a scongiurare i conflitti che una rinegoziazione dei confini ereditati avrebbe potuto scatenare.
Va inoltre ricordato come l’Oua sia nata in un contesto segnato dalle pesanti ipoteche della Guerra fredda, nel quale è però riuscita a svolgere un ruolo cruciale come organismo di raccordo per l’azione politica degli Stati africani nell’ambito delle Nazioni Unite, rafforzando il peso del Movimento dei Paesi non allineati.
Dalla fine degli anni Novanta, il mutamento degli equilibri internazionali dovuto alla fine della Guerra fredda ha acuito la marginalità politica ed economica dell’Africa, evidenziando anche i limiti dell’Oua e la necessità di una sua riorganizzazione. Venne così indetta una riunione straordinaria dell’Oua, tenutasi a Sirte in Libia nel settembre 1999, dove venne presa la decisione di istituire l’Unione Africana (Ua), la cui Carta costitutiva fu ratificata al vertice di Lomé del 12 luglio 2000. Un ruolo centrale nella creazione del nuovo organismo lo svolsero il Sudafrica di Thabo Mbeki, la Nigeria di Olusegun Obasanjo e la Libia di Mu’ammar al-Ghaddafi, che intendevano rendere l’Africa più incisiva sia sulla scena internazionale sia nelle vicende interne del continente.
Dopo più di vent’anni è possibile fare un primo bilancio. Molti analisti occidentali e anche alcuni africani sottolineano con vigore i fallimenti dell’Ua, ovvero l’eccesso di burocratizzazione, la lentezza dei meccanismi decisionali e la difficoltà ad agire nelle situazioni di crisi. Tuttavia il setaccio della storia ci restituisce un quadro più articolato. Senza negare la fondatezza di molte critiche, queste sembrano non prendere in adeguata considerazione la complessità e frammentarietà del contesto sociale ed economico in cui il progetto panafricanista si è sviluppato. L’Ua ripresenta alcuni dei limiti dell’Oua, certamente, ma è anche vero che ha contribuito a ridisegnare il panorama politico ed economico dell’Africa. Ispirandosi al modello dell’Unione Europea, ma senza le stesse risorse, ha raggiunto traguardi importanti. Basti pensare all’avvio di procedure per l’istituzione di un mercato comune africano (Afcfta), di uno spazio aereo africano unico, di forze di interposizione in aree di conflitto e all’introduzione di un passaporto africano. Fra tanti limiti, vi sono concrete possibilità che, da miraggio, il panafricanismo divenga realtà.