Noi spesso intendiamo la cittadinanza in chiave esclusiva: ce l’hai o non ce l’hai. Ma la recente pubblicazione* di un sociologo delle migrazioni ci fa riflettere che si può essere cittadini in molti modi. Che «anticipano un mondo più mobile, intrecciato»…
La cittadinanza è un istituto fondamentale dei sistemi democratici, ma ha da sempre un duplice volto: include chi la possiede, attribuendogli vari diritti, ma esclude in linea di principio chi ne è privo. Non è però una prerogativa immutabile, non è un blocco omogeneo, non si limita alla dimensione legale: non separa in maniera netta e inequivocabile cittadini e non cittadini. Proprio l’immigrazione mostra che la cittadinanza non è un sistema binario che contrappone inclusi ed esclusi, ma piuttosto una scala che si articola in diversi gradini. Per meglio dire, alcune dimensioni della cittadinanza, come l’assistenza sanitaria o l’educazione per i figli, possono essere raggiunte prima e più facilmente dai residenti stranieri, mentre altre rimangono più lontane e gelosamente custodite, come il diritto di voto a livello nazionale.
Su certe materie, alcuni attori collettivi, come le associazioni, i sindacati dei lavoratori, le comunità religiose, possono dare voce a quanti non godono della cittadinanza politica: hanno titolo a rappresentarli nello spazio pubblico, a difendere i loro diritti, a promuoverne la partecipazione. Possiamo parlare in questo caso di una cittadinanza mediata da questi soggetti organizzati.
Negli ultimi anni però è cresciuto l’interesse verso le forme di cittadinanza vissuta, ossia verso quelle azioni civiche e politiche che le persone possono sviluppare anche al di fuori del quadro della cittadinanza legale. Si pensi alle marce di protesta, oppure alla partecipazione a comitati di quartiere, ad azioni di accoglienza o ad assemblee pubbliche. Qui rientra anche la partecipazione al volontariato e a pratiche di solidarietà, come le raccolte fondi che molte collettività d’immigrati hanno organizzato in risposta al covid-19, a favore degli ospedali o della protezione civile italiana. La cittadinanza si configura come un processo, e non solo come un dato legale; un’esperienza che si costruisce dal basso, e non solo come una concessione dall’alto; un insieme di pratiche sostanziali, e non solo come uno status formale.
Gli immigrati sperimentano poi delle forme di cittadinanza transnazionale, che travalica i confini del Paese in cui vivono attualmente per mantenere vivi i rapporti con la madrepatria, e a volte con altri Paesi con cui intrattengono connessioni diasporiche. In un certo senso anticipano un mondo più mobile, intrecciato, e con sempre maggior fatica contenuto entro i contenitori politici nazionali. Si pensi per esempio all’istituto della doppia cittadinanza, oggi riconosciuta o almeno tollerata in oltre cento Paesi del mondo. Oppure al voto dall’esteroper le istituzioni del Paese di origine, anch’esso sempre più diffuso. Gli immigrati poi possono mobilitarsi e scendere in piazza qui per protestare contro il governo del loro Paese di origine o per appoggiarlo. Possono infine identificarsi in vario modo: con il Paese da cui arrivano o con quello in cui vivono, oppure scegliendo un’identità mista, col trattino. Anche questa è una dimensione della cittadinanza.
* M. Ambrosini, Altri cittadini. Gli immigrati nei percorsi della cittadinanza, Vita e Pensiero, 2020, pp. 164.
Maurizio Ambrosini. Docente di Sociologia delle Migrazioni nell’Università degli Studi di Milano, insegna anche nell’Università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro Studi Medì di Genova, dove dirige la rivista Mondi Migranti e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. È editorialista di Avvenire. I suoi ultimi libri sono L’invasione immaginaria (Laterza, 2020) e Altri cittadini (Vita e Pensiero, 2020).