In Francia, la legge contro il cosiddetto “separatismo islamico” voluta dal presidente Macron ha rilanciato una cultura del sospetto nei confronti delle comunità che vivono in condizioni di estrema povertà nelle periferie delle grandi città. Incapaci di risolvere le contraddizioni sociali ed economiche delle banlieue, gli attori politici colpevolizzano le minoranze di origine immigrata e le loro istituzioni religiose
di Maurizio Ambrosini
E’ andata in scena in questi giorni un’altra puntata dello scontro di civiltà alla francese. Ancora una volta, periferie difficili, islamismo radicale, laicismo di Stato, lacerazioni della coesione sociale si stanno sovrapponendo in un dibattito acceso, emblematico di una delle grandi sfide del nostro tempo: quella della convivenza e dell’integrazione di popolazioni culturalmente e socialmente diverse, ma insediate sullo stesso territorio. Sullo sfondo, la campagna elettorale per le presidenziali del prossimo anno, con Marine Le Pen incombente nei sondaggi nei confronti del presidente uscente Macron.
L’elemento inedito e un po’ inquietante della nuova puntata è stato il pronunciamento di un gruppo di militari. Folto, secondo i proponenti: generali in pensione (una ventina), alti ufficiali in servizio (un centinaio), altri militari (oltre un migliaio). Su una rivista conservatrice locale, subito ripresa dalla grande stampa, hanno denunciato le «orde di banlieue», invitando il presidente Macron a «difendere la patria». L’intervento ha causato un serio incidente istituzionale, giacché dai tempi della guerra d’Algeria i militari francesi si erano sempre attenuti a un rigoroso codice di astensione dalla partecipazione al dibattito politico. La polemica è aggravata dal fatto che Marine Le Pen ha espresso sostegno all’iniziativa dei militari, iscrivendoli di fatto al proprio disegno politico.
I “quartiers sensibles”
Ciò che maggiormente interessa è però la questione sociale sottostante. Nella notta tra il 19 e il 20 aprile si sono verificati scontri in una ventina di periferie popolari francesi, molte nella regione parigina, ma anche in altre conglomerazioni urbane, tra cui Bordeaux, Lille, Strasburgo. Confinamento, povertà, rabbia, sono le spiegazioni più diffuse. I quartiers sensibles, come vengono eufemisticamente chiamati in Francia, sono l’esito infausto di un’ambiziosa politica di edilizia sociale sviluppata negli anni Sessanta e Settanta, quando lo Stato s’impegnò a dotare di alloggi dignitosi milioni di residenti poveri, francesi e immigrati. Con il tempo, il parco abitativo si è degradato, così come le condizioni di vita degli abitanti e la qualità dei servizi. Chi ha conosciuto una certa promozione sociale si è spostato in quartieri più gradevoli, chi è rimasto intrappolato nella povertà non è riuscito a muoversi. Tra loro, molti figli e nipoti di immigrati arrivati nell’epoca d’oro dello sviluppo industriale. Ne consegue che il tasso di povertà in alcune periferie è doppio della media nazionale (quasi il 30% contro meno del 15%), in un paese per altri aspetti esente da profondi divari territoriali. La pandemia anche qui ha colpito duro, in termini di contagi, di vittime, di aggravamento della povertà, senza contare la sovraesposizione al virus di chi svolge i lavori più umili.
Il ruolo delle istituzioni religiose
Nel deserto sociale, culturale e istituzionale di questi quartieri senz’anima le sale di preghiera musulmane e le attività collegate sono spesso il principale punto di riferimento per gli abitanti, e in modo particolare per i giovani. A volte sono condotte da imam fai-da-te, tra cui non mancano i predicatori radicalizzati, a volte ricevono fondi dall’estero. Ma nella grande maggioranza non coltivano posizioni antagoniste e svolgono una funzione sociale, colmando come possono i vuoti lasciati dallo Stato e dal mercato.
Dovendo dimostrare determinazione ed efficacia nel fronteggiare gli attacchi terroristici, perlopiù oggi spontanei e improvvisati (36 quelli sventati negli ultimi mesi, secondo le autorità francesi), il governo e le forze politiche stanno rispolverando il vecchio arsenale del laicismo. La legge contro il cosiddetto separatismo islamico, voluta dal presidente Macron, ha rilanciato una cultura del sospetto nei confronti delle comunità religiose, colpite indistintamente dalle nuove norme. Così come da quelle contro i simboli religiosi. Secondo i militari e Marine Le Pen, bisogna andare ancora oltre. Incapaci di risolvere le contraddizioni sociali ed economiche delle banlieue, gli attori politici cercano una via d’uscita colpevolizzando le minoranze di origine immigrata e le loro istituzioni religiose. Non sembrano rendersi conto che l’alleanza con le forze vive e dialoganti delle comunità di fede porterebbe frutti migliori di queste battaglie d’altri tempi.
Maurizio Ambrosini. Docente di Sociologia delle Migrazioni nell’Università degli Studi di Milano, insegna anche nell’Università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro Studi Medì di Genova, dove dirige la rivista Mondi Migranti e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. Il suo ultimo libro è L'invasione immaginaria. L'immigrazione oltre i luoghi comuni (Laterza, 2020).