di Kingsley Malukele – foto di Tariq Zaidi
Viaggio nel far west del Madagascar tra i cercatori di gemme preziose. La scoperta di uno zaffiro avvenuta per caso vent’anni fa nel villaggio di Ilakaka ha dato inizio a una irrefrenabile caccia al tesoro. Che spinge decine di migliaia di persone a sfidare la morte
La Route Nationale 7 è la strada della speranza percorsa dai cercatori di zaffiri. Confluiscono da ogni provincia del Madagascar per raggiungere Ilakaka, ultima frontiera di una terra tempestata di gemme preziose e miserie scandalose.
Nel ventre della terra
Vent’anni fa, Ilakaka era un sonnacchioso villaggio di una quarantina di persone. La sua tranquillità fu sconvolta nel 1998 con il ritrovamento della prima pietra preziosa. Un francese a passeggio lungo il fiume nei paraggi dell’abitato scorse un cristallo blu. Comprese subito. In pochi mesi la notizia fece il giro dell’isola e Ilakaka divenne un magnete per schiere di disperati. Arrivarono anche trafficanti, banditi, prostitute, avventurieri… che trasformarono la zona in un far west.
Oggi gli abitanti di Ilakaka sono stimati in sessantamila; vivono in gran parte accampati in baracche di lamiera, tende lerce o capanne di paglia a ridosso di enormi crateri con le pareti a gradoni, come piramidi rovesciate che sprofondano nel ventre della terra. Fin dalle prime ore del mattino, i cercatori di zaffiri scavano con pale e picconi, riempiendo secchi di terra giallastra da setacciare. A turno s’infilano nei pozzi esplorativi che precipitano per cinquanta metri e spariscono dentro fragili tunnel. Senza la certezza di riemergere.
Ambiente ferito
Frane e cedimenti sono frequenti. Durante la stagione delle piogge le disgrazie si moltiplicano. Ogni settimana qualcuno resta sepolto. Nessuno tiene il conto dei morti, nemmeno c’è il tempo di piangerli. Si riprende a scavare. «La gemma più grande, quella che ti cambia la vita, è ancora lì sotto», si racconta tra i vicoli di Ilakaka. Contadini e mandriani hanno abbandonato la terra e gli allevamenti per la miniera. Il territorio, un tempo curato dalle comunità, è stato sventrato con rapidità impressionante. Dove c’erano pascoli, campi coltivati o boschi, oggi si estendono lande desolate trapanate di buchi. Esaurita una vena, si abbandona lo scavo e si passa a uno nuovo. I giacimenti si trovano in un’area di grande valore naturalistico, lunga circa quattrocento chilometri, tra il Parco nazionale Zahamena e la Riserva speciale di Mangerivola. Ma gli interessi economici legati alle gemme hanno indotto la classe politica a sacrificare l’ambiente per non ostacolare le attività estrattive, appaltate a colossi minerari stranieri.
Affari per pochi
Accanto alle grandi cave ufficiali, innumerevoli sono le miniere illegali, dove regna la legge del più forte. Gli zaffiri sono un varietà di corindoni (ossidi di alluminio) molto richiesti per via della loro purezza e durezza naturale (seconda solo a quella del diamante). Sono impiegati dall’industria nella realizzazione di vetri di orologi, microprocessori, gioielli di valore. A differenza dei rubini, rossi perché contengono tracce di cromo, gli zaffiri sono blu per la presenza di titanio e ferro. Nell’area di Ilakaka si trovano altre varietà di corindoni, di colore rosa e arancio, assai richieste sul mercato del lusso.
Ogni pomeriggio, i raccoglitori delle miniere illegali raggiungono Ilakaka per vendere le pietre raccolte nella giornata. I commercianti, perlopiù di origine asiatica, soprattutto srilankesi o thailandesi, le selezionano nei loro chioschi dalle insegne altisonanti: Gems City, Dubai Gems, Blue Zafir, Sri Lanka Saphir. Analisi e contrattazioni avvengono al riparo di grosse inferriate. Alcuni trafficanti ostentano pistole e fucili per scoraggiare i malintenzionati.
Sogni infranti
Le gemme più grandi e pregiate arrivano, una volta tagliate, anche ai mille euro a carato. Un tempo lo Sri Lanka aveva il monopolio della produzione. Poi sono stati scoperti giacimenti importanti in Australia, Cambogia e Cina. Oggi il Madagascar estrae circa il 20% degli zaffiri commercializzati nel mondo. Ma non sono certo i minatori di Ilakaka a fare gli affari. «Chi si arricchisce sono le multinazionali», spiega Joshua, che ha appena terminato la sua giornata di lavoro. «Prendono in concessione i giacimenti e portano qui i loro macchinari, con cui saccheggiano la nostra terra. A noi restano le briciole. Le condizioni in cui lavoriamo sono pessime. I minerali non ci hanno portato fortuna», conclude amaro. Gli uomini rischiano la vita, le donne si prostituiscono per una manciata di monete. «Le decine di migliaia di persone che si sono accampate attorno alle miniere non hanno fatto che aumentare la propria miseria», conferma padre Aldo Reviglio, cuneese, missionario vincenziano, nella zona dagli anni Sessanta. «Negli insediamenti informali mancano acqua, luce e servizi igienici. Le baracche si ammassano l’una sull’altra. C’è bisogno di tutto».
C’è anche la febbre dell’oro
Sulle rive di un piccolo alveo tra Antsirabe e Miandrivazo, uomini, donne e bambini sono accovacciati coi loro setacci di metallo fatti in casa: cercano oro. Stesse modalità e stesse condizioni dei minatori di Ilakaka. L’estrazione artigianale su piccola scala di pietre preziose – basata sul lavoro manuale e con un basso investimento di capitale – è la forma prevalente di attività mineraria in Madagascar: le miniere artigianali danno lavoro a circa mezzo milione di persone e sostengono altri 2,5 milioni di cittadini (il 10% della popolazione).
Sebbene l’attività mineraria su piccola scala possa fornire una fonte di reddito e occupazione per le comunità rurali, ha anche molte conseguenze negative. I minatori artigianali sono costantemente a rischio a causa delle cattive condizioni di salute e sicurezza in cui sono costretti a operare: i cunicoli delle miniere vengono scavati con tondini d’acciaio affilato e non avendo alcun rinforzo sono soggetti a collasso. Ragazzini di 12 anni vengono uccisi da crolli nei tunnel. Donne e bambini setacciano la ghiaia in superficie. L’estrazione mineraria provoca anche il degrado ambientale, poiché la disperazione spinge i minatori a sfruttare i giacimenti nelle aree protette.
La legge del più forte
La febbre delle pietre preziose sta spopolando le campagne. Secondo uno studio dell’Institut de Gemmologie de Madagascar, i minatori guadagnano da tre a nove volte di più dei lavoratori agricoli. Ma la loro dipendenza da un mercato non regolamentato – controllato da interessi esterni – li intrappola in un ciclo di estrema povertà. Il Madagascar è uno dei Paesi più poveri del mondo, con un pil pro capite di 500 dollari. Secondo la Banca mondiale, nel solo 1999 dal Madagascar sono stati contrabbandati zaffiri e altre gemme per un valore di 100 milioni di dollari, e le stime suggeriscono che oggi il valore del traffico illegale sia di circa 150 milioni l’anno.
Lo scorso anno, l’81% della popolazione è sceso al di sotto della soglia internazionale di povertà (2,15 dollari pro capite al giorno): non era mai successo. Instabilità politica e corruzione diffusa tengono lontani gli investitori. L’estrazione mineraria su piccola scala sfugge a qualsiasi forma di controllo o regolamentazione. Sebbene un minerale di alta qualità possa valere una fortuna, i minatori artigiani non hanno le conoscenze necessarie per stabilire il valore delle loro pietre grezze. Gli zaffiri vengono solitamente contrabbandati in Sri Lanka, privando il governo malgascio di un reddito tanto necessario. L’oro viene spesso contrabbandato a Dubai, dove viene lavorato e inviato ai mercati di tutto il mondo. Di conseguenza, i minatori artigianali raramente ottengono prezzi equi per le loro gemme, rimanendo così intrappolati in un ciclo di estrema povertà e disperazione.