Quando si parla di artisti afropolitan il pensiero va in genere a persone che mantenendo e curando le radici e le connessioni africane hanno saputo muoversi verso un altrove, metropolitano e occidentale, che ha dato altra linfa e nuovi contenuti alla loro espressività. Maïmouna Guerresi in realtà ha percorso questa strada al contrario, e molto prima che l’Africa diventasse di moda. Da fine anni ’90 vive infatti tra Monteforte d’Alpone (Vr), dove si trova la sua casa di famiglia, e Dakar, che è diventata la sua altra città. Si è convertita all’Islam e ha trovato nella spiritualità sufi, caratteristica del Senegal, il filo conduttore della sua ricerca artistica, che si snoda tra fotografia, scultura e video. Ha esposto in tutto il mondo e partecipato agli appuntamenti più importanti legati all’arte contemporanea africana (dalla Biennale di Dakar alla fiera londinese 1-54), raccogliendo premi, plausi e consensi ma spesso venendo anche accusata di essere troppo bianca per essere africana e troppo africana per essere semplicemente un’artista.
Da qualche giorno, alle Officine dell’Immagine di Milano, è possibile visitare una piccola ma compiuta retrospettiva che raccoglie momenti salienti della sua storia creativa e propone alcuni inediti, tratti dal suo ultimo progetto, che si rivolge alla natura e al suo troppo ignorato legame col divino. La selezione delle opere è stata fatta da Silvia Cirelli, una curatrice che lavora spesso con le Officine e che ama rivolgere la sua attenzione ad artisti profondi e poco mainstream. La cosa più incredibile – ne abbiamo convenuto chiacchierando – è che prima d’ora Maïmouna non avesse mai portato una personale a Milano. E forse – è il parere di chi scrive – in questa assenza ha giocato un ruolo la sua difficile classificabilità, che la rende poco spendibile in termini di marketing.
La mostra milanese si intitola Rūḥ/Soul, parola araba cara al sufismo, che può essere tradotta appunto con “spirito”, nel senso di fiato che anima la materia inerte e che riempie il corpo di vita. Le fotografie di Maïmouna sono altamente scenografiche e di immediato impatto. A una lettura più accurata rivelano però la complessità e la ricercatezza della loro costruzione, tra figure ieratiche e simbolismi. La linea bianca dipinta sui volti di alcuni personaggi o che attraversa i fondali, per esempio, è un segno di purificazione e di luce, ma rimanda pure al confine che separa vita e morte, il conosciuto e l’ignoto, la fugacità dell’esperienza terrena e l’eternità del divino. Le radici che affiorano dalle figure umane, la scelta dei colori, gli oggetti che si inseriscono sulla scena: ogni elemento, anche quello apparentemente più insignificante o surreale, ha una ragione precisa e un richiamo spirituale definito. La teatralità non è lo scopo della composizione ma la conseguenza, il meraviglioso effetto collaterale della ricerca indefessa, autentica, portata avanti da una vera artista. Fino al 18 gennaio.
(Stefania Ragusa)