Sono davvero tante le sfide che attendono il governo in procinto di essere nominato in Mali. Un Paese tuttora frammentato in cui molteplici attori hanno occupato il proprio spazio, lontano da logiche democratiche e consensuali.
Il compito di guidare l’esecutivo spetta al giovane Boubou Cissé, nominato primo ministro ad aprile 2019 e confermato dal presidente Ibrahim Boubakar Keita a seguito della vittoria del Raggruppamento per il Mali (Rpm) alle elezioni parlamentari di aprile 2020. Una vittoria ottenuta sulla carta, senza maggioranza assoluta e strappata con un tasso d’affluenza molto basso (il 35,25%) riconducibile a un misto di disinteresse, delusione, paura del coronavirus e paura dei terroristi.
Il rinnovo delle istituzioni si sta svolgendo in un contesto delicato, in cui l’alternanza di tentennamenti e immobilismi è una breccia nella quale s’infilano gli opportunismi.
La cronaca recente ha visto scendere in piazza manifestanti antigovernativi. La prima volta a fine maggio, per contestare i risultati definitivi delle parlamentari, che hanno aggiunto seggi all’Rpm. La seconda, ai primi di giugno, per denunciare i mali che tengono il Paese in un limbo di povertà, corruzione, insicurezza e divisione. Il 5 giugno, a capo dei manifestanti anti-IBK – come è comunemente soprannominato il presidente – è emerso un influente leader islamico, l’imam Mahmud Dicko, affine alle frange religiose più radicali.
A suscitare l’indignazione è anche il sequestro del capofila dell’opposizione, Soumaila Cissé, un leader storico della politica maliana, più volte candidato alle presidenziali. Soumaila Cissé è stato rapito mentre si trovava in campagna per le elezioni parlamentari, il 25 marzo nella regione di Timbuctù. Dopo due mesi e mezzo di prigionia, per l’uomo 71enne, poco si sa della sua sorte o di trattative in corso per la sua liberazione. Anche su questo punto, il governo è sotto il fuoco delle critiche.
Sebbene il sequestro non sia stato rivendicato, sembrerebbe che Cissé sia nelle mani di miliziani dello Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin (Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani, Jnim) un gruppo affiliato ad Al Qaeda. Non è nemmeno chiaro quale sia lo scopo dei rapitori, considerando che, lo scorso febbraio, IBK aveva dichiarato di voler aprire un quadro di dialogo con i jihadisti.
Lo Jnim di Iyad ag Ghali e di Amadou Koufa, nato dall’alleanza di Ansar al Din e della katiba Macina, è uno dei gruppi armati che controlla alcune zone centrali e settentrionali del Mali. Ma non è l’unico gruppo armato della regione. Nell’area della cosiddetta zona delle tre frontiere (con Niger e Burkina Faso) opera anche il gruppo affiliato all’Isis, lo Stato islamico nel grande Sahara, guidato da Adnan Abou Walid Sahrawi. Nel vasto gioco di guerra e di posizioni in atto nel Sahel, le due formazioni jihadiste si scontrano anche tra loro, soprattutto dallo scorso gennaio. Le rotte della regione sono fondamentali per i traffici, soprattutto di droga e di armi, e averne il loro controllo fa la differenza. Nella morsa di questa situazione è stretta la popolazione locale, obbligata a sottomettersi, o ad affiliarsi, come nel caso dei giovani privi di vere prospettive per il futuro. Nella strategia dei jihadisti entra anche la strumentalizzazione di tensioni tra comunità locali.
La presenza dei jihadisti giustifica tuttora quella dei soldati francesi. Arrivati nel 2013 per fermare l’avanzata di questi miliziani verso Bamako, i militari della cosiddetta Operazione Barkhane sono circa 5.000, sparsi tra il Mali, il Niger e il Ciad. Operazioni mirate – come la recente uccisione del leader di Al Qaeda nel Maghreb islamico, Abdelmalek Droukdel – intelligence, formazione degli eserciti locali, sono compiti assolti dai soldati di Parigi, ma finora non si è delineata una chiara supremazia sulle forze jihadiste. Anzi, negli ultimi cinque anni queste ultime hanno guadagnato terreno anche nei Paesi confinanti, compiendo sempre più attacchi in Burkina Faso e in Niger.
Un passo indietro
La mano jihadista in Mali, è bene ricordarlo, si è affermata a ridosso dell’insurrezione indipendentista dei movimenti tuareg dell’Azawad. Alla fine del 2011, dopo tentativi di dialogo rimasti nel cassetto, alcuni tuareg passano dalle parole ai fatti usando una strategia nella quale hanno la meglio, quella delle armi. Nasce il Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla), un movimento dotato di braccio politico e militare, composto in maggioranza di tuareg ma non solo. Scatta la rottura con il governo centrale, lontano non solo geograficamente ma anche culturalmente, comunitariamente, morfologicamente dalle popolazioni nomadi del deserto. A soffiare sul fuoco delle differenze ereditate dalla divisione coloniale dell’Africa, divisione nella quale i tuareg si sono ritrovati emarginati, è un’altra guerra: quella che vede vacillare la Libia di Muammar Gheddafi. Il rais è ucciso proprio in quel momento, ad ottobre 2011. La fine del regime fa crollare gli equilibri nella regione. Fuggono soldati libici del deserto, tornano in patria. Per molti di loro, quella patria è il nord del Mali.
Nel 2012 il conflitto precipita, l’esercito maliano subisce sconfitte ed è in quel momento che si affermano gli islamisti. Conquistano territorio, preoccupano l’Mnla. L’intervento dei francesi blocca l’avanzata delle bandiere nere.
Su quel tavolo fragile nel 2013 si siedono il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad e il governo, fino alla firma degli accordi di pace di Algeri nel 2015. Entra sulla scena un altro – ennesimo – attore: la missione di “stabilizzazione” delle Nazioni Unite, nota con l’acronimo Minusma.
Sette anni dopo il suo arrivo, la missione dei caschi blu non ha concluso molto, se non la stabilizzazione della situazione iniziale. Tacciono le armi della secessione, ma non è ancora attuata la reale divisione politico-amministrativa né militare. Sul piano dello sviluppo del territorio dell’Azawad, gli autoctoni lamentano pochi progressi, ai quali si aggiungono voci di appropriazione indebita di fondi destinati a progetti. Sul piano della sicurezza, i caschi blu hanno subito pesanti perdite in vite umane. Le ultime due proprio questo fine settimana, nell’attacco a un convoglio tra Tessalit e Gao, in una zona dove sono attivi i jihadisti.
Mancano ancora pezzi nel grande puzzle maliano. Il centro del Paese non è privo di tensioni, che regolarmente sfociano in scontri armati, tra le comunità peul e dogon. Appoggiandosi sui cacciatori tradizionali, i dozo, si sono formate milizie di autodifese armate. E anche il governo, secondo alcune voci, avrebbe un proprio braccio paramilitare riservato alle missioni meno ‘convenzionali’.
Dalla lente dei palazzi di Bamako, in attesa del nuovo governo, l’obiettivo di un Mali pacifico e coeso deve sembrare molto lontano.
Céline Camoin