Mappe e spazi bianchi che modificano la nostra percezione dell’Africa

di claudia

di Federico Monica

La cartografia non è “obiettività”. La creazione e la diffusione delle mappe ha contribuito potentemente al nostro immaginario (distorto) dell’Africa. Gli spazi bianchi – le regioni inesplorate – venivano colmati con immagini e testi sovente “mostruosi”. E anche oggi le mappe urbane spesso conoscono spazi bianchi: gli slum, che neppure meritano una menzione

Antropophagi: cannibali. Questa è la scritta a caratteri gotici che si legge in una zona a cavallo fra gli attuali Tanzania e Mozambico su una delle più antiche mappe conosciute del continente africano, la Quarta Africae Tabula del 1489. Non si tratta di un reperto isolato: scorrendo in rassegna le carte dell’Africa che vanno dalla diffusione della stampa fino all’epoca coloniale è evidente come alcuni stereotipi tuttora diffusi, che dipingono il continente attraverso le lenti dell’esotismo, del mistero o della paura, hanno una lunga tradizione. Insieme ai resoconti di esploratori o viaggiatori, infatti, sono proprio le mappe ad aver contribuito maggiormente alla lettura distorta che ancora oggi affligge l’Africa.

Una diffusione di stereotipi che parte dal celebre – però mai documentato – “Hic sunt leones” dei latini e che è dovuta principalmente a un problema grafico: gli spazi bianchi sulle mappe.

Infatti, mentre le coste e i bacini dei fiumi principali erano ben noti a naviganti, cartografi e mercanti, e di conseguenza fitte di toponimi e indicazioni, gli sterminati spazi inesplorati all’interno del continente restavano inesorabilmente bianchi. Le aree vuote dovevano per forza essere riempite, ed ecco fiorire nei secoli una serie di disegni che rappresentavano animali fantastici o esseri mostruosi, spesso accompagnati da frasi pittoresche che indicavano la presenza di popoli selvaggi particolarmente cruenti. La mappa di Münster del 1554 raffigura un mostruoso ciclope nell’attuale Delta del Niger, mentre una carta di quasi due secoli dopo riporta, a sud dell’equatore: “Terra sconosciuta abitata da cannibali” e, in un’area poco più in basso, “Popolo di cannibali crudelissimi”.

Specialmente oggi, nell’era dei navigatori e di Google Maps, siamo portati a pensare che carte geografiche e mappe siano strumenti neutri, basati su dati certi, equi e incontrovertibili; dovremmo invece ricordare che disegnare le mappe è un grande atto di potere. Proprio in epoca precoloniale la rappresentazione del continente africano contribuì in modo determinante alla creazione di un immaginario collettivo fatto di selvaggi da civilizzare e popoli primitivi da educare e convertire.

A partire dalla seconda metà del XIX secolo gli spazi bianchi vanno riducendosi progressivamente: alle grandi esplorazioni si affianca il dominio europeo dei territori e si impone l’esigenza di mappare con precisione il territorio per sfruttarne al meglio le risorse. Si crea però un paradosso: le regioni che rivestono interessi economici e strategici sono rappresentate con abbondanza di dettagli anche se remote, quelle considerate meno interessanti restano invece aree bianche o indefinite; è il caso dei cosiddetti “quartieri indigeni” delle città coloniali, non disegnati ma indicati solo con generiche frasi. Un’attitudine ereditata e perpetuata dagli Stati africani dopo le indipendenze e diffusa fino ad oggi: nelle grandi città, infatti, molti slum e quartieri informali sono ancora rappresentati sulle mappe come grandi aree bianche, esattamente come i luoghi ancora inesplorati nelle carte antiche. E forse non è un caso che proprio su queste aree “ignote” continuino a fiorire stereotipi e leggende: luoghi pericolosi, abitati da “selvaggi urbani”, infestati di malattie e vizi, insomma zone da civilizzare o, se possibile, estirpare.

Nei primi anni Duemila mi trovavo a Freetown per una ricerca sugli slum. Ben presto mi resi conto che il primo e più difficile passaggio sarebbe stato disegnare quei quartieri che là, come in tante altre metropoli africane, erano soltanto grandi aree bianche sulle mappe urbane. Un giorno, durante questa faticosa operazione, un residente della baraccopoli di Kroo Bay mi chiese un favore: non soldi o un qualche tipo di aiuto ma semplicemente il foglio A4 sporco e stropicciato su cui stavo disegnando. La mattina seguente trovai un internet cafè e ne stampai due copie; ricordo il suo sorriso quando gli indicai la posizione della sua minuscola casa in lamiera, che segnò subito con una X tremolante. L’indomani si era sparsa la voce: una piccola folla mi aspettava per avere ciascuno la propria mappa. Stupito, tornai allora con una decina di fogli, che finirono in pochi secondi; nel pomeriggio altri venti: ancora non erano abbastanza. Che se ne facevano di quei fogli approssimativi, stampati malamente e neppure ufficiali? Per i residenti di Kroo Bay quello non era un semplice pezzo di carta ma la prima rappresentazione del quartiere e della propria casa su una mappa. Quel foglietto significava non essere più semplicemente uno spazio bianco a margine della città ma esistere, e forse avere dei diritti. È la più grande lezione sulle mappe che io abbia mai ricevuto.

Questo articolo è uscito sul numero di maggio-giugno della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui.

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