Il Nobel per la pace a un leader africano è anche un messaggio: si può esercitare la leadership senza per forza diventare autoritari, repressivi o peggio.
Il premier etiopico Abiy Ahmed è premio Nobel per la pace. Finalmente l’Africa entra nell’albo dei costruttori della pace con uno dei suoi leader. Abiy è giovane e, appena nominato primo ministro, ha subito impresso il suo stile riprendendo le relazioni con l’Eritrea, il Paese «gemello» dell’Etiopia a cui la legano tanta storia e cultura, ma con la quale un’aspra guerra durava da troppi anni.
Non tutti in Etiopia sono stati contenti di tale scelta. Restano frange di estremisti, accesi nazionalisti o fanatici regionalisti, come nel Tigrai. In più di questo atto storico, Abyi Ahmed si è adoperato per facilitare il dialogo tra la piazza e le autorità militari in Sudan e per favorire un clima migliore nei negoziati per il Sud Sudan che si svolgono (almeno per una parte delle sessioni ufficiali) proprio ad Addis.
Il Nobel per la pace a un leader africano è anche un messaggio: si può esercitare la leadership senza per forza diventare autoritari, repressivi o peggio. Circola da sempre per il continente subsahariano una favoletta e cioè che «gli africani hanno bisogno di un capo forte» per essere governati. È una scusa dei despoti, ma anche una fake news. Gli Stati africani precedenti la colonizzazioni erano spesso acefali, con capitale mobile e con forme di rotazione del potere. Certo esistevano le élite, in specie i lignaggi reali o nobili, che detenevano il controllo, ma raramente si giungeva a capi assoluti autoimposti, anche nel caso di grandi re o leader. La tradizione africana è piuttosto quella di una concertazione tra anziani, come rimane ancora un po’ in zona rurale.
In effetti la governance dell’Africa è uno dei temi più dibattitti nei fori internazionali. Gli occidentali giustamente puntano il dito contro la corruzione, che altri partner mondiali considerano poco importante, ma non basta. Tutte le norme internazionali create in questi decenni per cercare di frenare il fenomeno hanno avuto come solo risultato di rendere i programmi e i progetti di sviluppo farraginosi e difficili da gestire. Tra Africa ed Europa si è creato col tempo un clima di sospetto su tale tema, favorito anche da chi non crede più nell’aiuto allo sviluppo. Ne è sorta una specie di neo-dottrina (ricordate Dead Aid, l’aiuto che uccide?) che favorisce la logica iperliberista di mercato, cioè una specie di riedizione di trade not aid (che precedette l’epoca delle privatizzazioni), paradossale in tempi di guerra commerciale. Alla fine spesso accade che i leader africani stessi decidano di rivolgersi a partner capaci di chiudere un occhio e dalla manica più larga, magari riaccendendo la crisi del debito.
Ora il premier Abyi sa di dover affrontare l’annosa questione delle nazionalità in Etiopia. Il federalismo innestato nel Paese dalla caduta di Menghistu, e l’arrivo al potere del Fronte di liberazione, non ha realmente risolto i problemi. Gli Oromo sono da tempo in subbuglio e chiedono più autonomia. Anche tra gli Amhara c’è scontento e l’ultimo tentativo di colpo di Stato è venuto da quegli ambienti. I Tigrini lamentano la perdita di influenza che fino a Melles era stata totale, e severa. Infine i Somali si sono creati una specie di esercito regionale e mantengono relazioni con i vari spezzoni di Somalia senza passare per Addis. Tutti hanno doléances nei confronti di Abiy Ahmed, il quale dovrà trovare una soluzione unitaria alle spinte disgregatrici in atto. Il premio Nobel può certamente aiutarlo.
Mario Giro è docente di relazioni internazionali. Già viceministro degli Affari esteri e responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio. Esperto in mediazioni e facilitazioni nei conflitti armati, cooperazione internazionale e sviluppo, Africa, Medio Oriente e America Latina. Autore di vari saggi e collaboratore di numerose riviste, ha recentemente pubblicato per Guerini e Associati Global Africa. La nuova realtà delle migrazioni: il volto di un continente in movimento.