Mario Giro ▸ Eritrea-Etiopia sotto il segno della speranza

di Pier Maria Mazzola

Lo storico «abbraccio fraterno» tra i leader dei due Paesi “cugini nemici” apre davvero un’era nuova, secondo l’ex viceministro degli Esteri che per Africa rilegge la storia della “guerra dei sassi”, un conflitto che ha causato troppi morti e gettato nello sconforto gli amici dei due Paesi.

Svolta nel Corno: il neo-premier etiopico Abiy Ahmed e il presidente eritreo Isaias Afewerki hanno sottoscritto un accordo di pace, dopo che il capo dello Stato dell’Etiopia era sbarcato ad Asmara e abbiamo assistito a un abbraccio tra i due. Pochi giorni prima, dopo la dichiarazione di disponibilità di Addis Abeba, una delegazione eritrea era stat invitata nella capitale etiopica, e l’incontro si era svolto in un clima di grande cordialità. Può essere l’inizio di una nuova storia. In concreto, il Fronte democratico rivoluzionario etiopico si dice pronto ad applicare «integralmente» gli accordi di Algeri del 2000, proprio ciò che Asmara chiede da 18 anni per sbloccare l’impasse.

Quella del 1998-2000 fu una guerra tra “cugini”, incomprensibile per chi non era addentro alle dinamiche storiche eritreo-tigrine. I due fronti popolari furono cobelligeranti vittoriosi contro l’Etiopia di Menghistu, quella del “terrore rosso” alleato dell’Urss che a sua volta aveva abbattuto il Negus e la sonnolenta e medievaleggiante Etiopia amarica.

Nel 1991 il Fronte eritreo entrava ad Asmara mentre quello tigrino occupava Addis Abeba. Subito iniziarono i dissapori tra “compagni”: gli eritrei perseguivano la loro antica agenda nazionalista. Il momento era finalmente giunto: da decine d’anni si erano sacrificati per il sogno di un’Eritrea indipendente. Gli eritrei sono un popolo fiero e non avevano mai accettato l’unificazione forzata del dopo Seconda guerra mondiale. Ma non tutti i “cugini” tigrini furono d’accordo: volevano lo Stato federale o almeno mettere bocca nel programma eritreo, negoziarlo.

Tuttavia il loro leader, Melles Zenawi, lasciò fare per non esacerbare gli animi e l’Eritrea divenne indipendente. Purtroppo non finì lì. Invece di rasserenare, la separazione acuiva le ostilità. Asmara procedeva da sola, cambiava la moneta e concedeva l’utilizzo del porto di Assab, vitale sbocco al mare per Addis, a condizioni ritenute esagerate. Il contenzioso era risolvibile ma i falchi soffiavano sul fuoco: contavano molto durezze ideologiche e contrasti etnico-politici indecifrabili agli esterni. Alla fine di un periodo di dure polemiche, nel 1998 scoppiò una guerra durissima, combattuta in una specie di deserto di sassi. Nessuno capì quella carneficina, a meno di non immergersi nella storia della relazione tra i due Fronti all’ombra del potere sovietico – ormai al tramonto – e dell’influenza ideologica cinese. La “guerra dei sassi” è stata forse un conflitto postumo dello scontro bipolare.

Nel Corno infatti la storia non passa mai e sembra essere rimasti alla fine della guerra fredda. Anche la Somalia è bloccata sulla frammentazione del 1992. Nell’ambasciata italiana di Addis Abeba sono ancora ospitati, in una foresteria seminascosta in fondo al bosco, due ex leader del “terrore rosso” di Menghistu ormai ottantenni, che vi si rifugiarono nel convulso passaggio di potere quasi trent’anni fa. Al circolo Juventus della collettività italiana di Addis, quegli anni terribili sono raccontati come se si trattasse di ieri e resta una certa nostalgia per il tempo del Negus, «che ci rispettava». Per non parlare di Asmara, dove tutto è rimasto ad ancora prima: bellissima nella sua impronta italiana anni Trenta, dove ancora si produce una versione locale del Punt e Mes o del Cynar, si va al cinema Impero e da qualche tempo tempo rivive la vecchia fabbrica Barattolo in partnership con l’impresa tessile italiana Zaer.

L’Italia è parte di quella storia che non vuole finire. Nel corso degli anni i tentativi diplomatici della Farnesina per riavvicinare i due sono stati numerosi. Se n’è occupata anche Sant’Egidio, in buon collegamento con le due capitali da anni. Molte nostre ong lavorano in Etiopia, che è uno dei primi Paesi per la nostra cooperazione; un po’ meno ad Asmara, dove però non manca un’assistenza sanitaria e umanitaria. Le imprese – più numerose in Etiopia – fanno regolarmente capolino anche in Eritrea, con progetti che si realizzano con lentezza ma tenacia. Negli ultimi contatti avevamo capito che qualcosa si stava muovendo e che il cambio di primo ministro ad Addis Abeba faceva soffiare un vento nuovo. D’altronde le proteste in Oromia consigliano di chiudere almeno un fronte.

Oggi l’aria è cambiata: è una buona notizia per tutto il Corno d’Africa. Ma è cambiato anche il contesto attorno: l’Etiopia è divenuta un partner internazionale essenziale nella lotta contro gli Shabaab. Oltretutto si è molto modernizzata, soprattutto in ambito urbano. Anche Asmara ha superato un’ermetica chiusura, complice la guerra in Yemen: gli Emirati ne hanno fatto una base per il loro intervento. Denari arabi e geopolitica regionale spingono i due antichi “cugini nemici” a parlarsi di nuovo. Se l’accordo di Algeri sarà rispettato, la storia potrà ripartire.


Mario Giro è docente di relazioni internazionali. Già viceministro degli Affari esteri e responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio. Esperto in mediazioni e facilitazioni nei conflitti armati, cooperazione internazionale e sviluppo, Africa, Medio Oriente e America Latina. Autore di vari saggi e collaboratore di numerose riviste, ha recentemente pubblicato per Mondadori La globalizzazione difficile.

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