La debolezza degli Stati provoca dunque una frammentazione armata che sarà difficile da riassorbire anche dopo un’eventuale sconfitta dei terroristi islamisti del Sahel
Le milizie vengono usate dappertutto in Africa occidentale che sta divenendo un vero e proprio hub per miliziani di ogni sorta. Su queste pagine ho già scritto delle milizie di autodifesa anti-Boko Haram della Nigeria del Nord-est, divenute ormai un attore del conflitto di cui il governo federale deve tener conto. Simile situazione in Mali che, scosso dal secessionismo tuareg prima e attaccato dai jihadisti poi, dal 2011 si mette in mano a milizie etniche o locali, tra cui anche molti profittatori.
Il motivo è la carenza delle forze armate nazionali maliane che non riescono a muoversi su terreni difficili e capitolano ad ogni scontro. Per troppo tempo l’esercito è stato utilizzato solo per conquistare il potere nella capitale ed ora non sa più fare il suo mestiere. Quindi al suo posto si armano i civili: dalle milizie Ganda a quella terribile dei Dan Nan Ambassagou oggi disciolta per aver sterminato un intero villaggio peul (o fulani). Inutile fare la lista: ogni popolazione può avere la sua milizia in un caos totale in cui lo Stato ha perso il controllo.
Il problema è che così alla lotta anti-terrorismo si connettono vendette locali, appetiti per terra e acqua, traffici ecc. La guerra diviene totale non nel senso delle armi utilizzate (spesso le stesse) ma nel senso di una lotta di tutti contro tutti. Ogni gruppo cerca di trarre qualcosa per sé dall’anarchia generale. Inoltre i miliziani si sentono totalmente svincolati da ogni norma di diritto internazionale a riguardo dei conflitti.
Anche i jihadisti del Sahel sono divisi in katibe e gruppi vari ma il loro comando è unitario e non permettono a nessuno di trarre dalla guerra profitti illeciti. Si inseriscono invece abilmente nelle divisioni interne e nelle contraddizioni di chi li combatte. Non sono rari i casi in cui il jihadismo riesce a polverizzare ulteriormente ciò che è già diviso.
Ora è il turno anche del Burkina Faso che utilizza milizie rurali (kokloweogo) per reagire agli attacchi terroristici nel Nord ed Est del Paese. Già si erano viste milizie nella guerra della Costa d’Avorio (2002-2010), in particolare ad ovest dove il conflitto è stato più brutale.
I governi si giustificano parlando di milizie di autodifesa che si organizzano autonomamente laddove lo stato è più debole e le truppe ufficiali non riescono ad arrivare. Ma ormai siamo in una situazione di anarchia totale. D’altro canto sorgono domande preoccupanti. Innanzi tutto: chi arma le milizie? Se i classici dozo (i cacciatori tradizionali di origine arcaica, che esistono in quasi tutti questi Paesi, usano l’arma bianca o fucili antidiluviani) ora i miliziani più recenti possono usufruire di armi automatiche.
Un’altra questione è la manipolazione etnica: quasi sempre il reclutamento avviene su basi claniche, facendo leva su passati contenziosi . L’ultima tragedia della guerra delle milizie è la crescita esponenziale dell’odio anti-peul che si sta generalizzando ovunque. Mentre i mass media occidentali immaginano un inverosimile «jihad peul» che ricalcherebbe quello di due secoli fa, la realtà è quella di un scontro ricorrente tra pastori seminomadi e agricoltori che ora si cela dietro le mentite spoglie della lotta al terrorismo, assumendo un’intensità di violenza mai vista prima.
La debolezza degli Stati provoca dunque una frammentazione armata che sarà difficile da riassorbire anche dopo un’eventuale sconfitta dei terroristi islamisti del Sahel. Rafforzare gli Stati saheliani è dunque un imperativo categorico della comunità internazionale se si vuole evitare il caos permanente.
Mario Giro è docente di relazioni internazionali. Già viceministro degli Affari esteri e responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio. Esperto in mediazioni e facilitazioni nei conflitti armati, cooperazione internazionale e sviluppo, Africa, Medio Oriente e America Latina. Autore di vari saggi e collaboratore di numerose riviste, ha recentemente pubblicato per Mondadori La globalizzazione difficile.