Forse siamo alla svolta: dopo decenni, la Somalia potrebbe andare al voto senza utilizzare il sistema delle quote claniche e tribali.
L’ha stabilito il Parlamento e il presidente ha firmato la legge. Ci sarà ancora un diritto di tribuna per i clan, ma l’essenziale è che si dovrebbe andare al voto con il nuovo sistema. Si sta anche pensando a mantenere la quota femminile garantita del 30%.
Un suffragio universale di questo tipo avvenne solo nel 1969, prima del regime di Siad Barre a cui è seguita l’interminabile guerra civile. Ormai lo ricordano solo i vecchi. L’abbandono del “sistema 4.5” (tutti i posti parlamentari e di governo divisi tra i 4 più grandi clan oltre alcuni posti per i minoritari) è una grande notizia: creato per diminuire le tensioni tra lignaggi, in realtà li ha fomentati e resi perenni. Certamente i 4 gruppi avranno ancora la longa manus sui seggi, ma dovranno far emergere candidati competenti e le carte inizieranno (pur lentamente) a mescolarsi.
Tuttavia non tutti gli Stati federati della Somalia sono contenti: alcuni affermano che Mogadiscio ha scelto da sola e di non essere stati sufficientemente consultati. Puntland e Jubaland sono tra l’altro in forte contenzioso con il governo centrale per una serie di ragioni economiche. Ogni tanto si rischia lo scontro armato anche tra esercito federale (di cui molti membri sono stati formati dagli italiani) e forze di sicurezza locali. Fino a che il premier etiopico Abiy Ahmed non vi ha posto un freno, le rivalità interne alla Somalia venivano addirittura attizzate dagli strani giochi dei cugini somali della regione dell’Ogadèn, mediante le proprie forze di polizia locale (in realtà un vero e proprio piccolo esercito).
Molto contestato è ancora l’articolo 53 della legge che permette al governo centrale di rinviare le elezioni in caso di «disastri come inondazioni, carestie o conflitti armati»: a molti pare una scappatoia per prolungare il mandato e mantenersi al proprio posto. In particolare il Puntland ha chiesto di ridiscutere l’intero “progetto federale” da poco approvato.
Ma la comunità internazionale è stanca degli interminabili dibattiti somali che rinviano le soluzioni possibili alle calende greche. Le elezioni generali a venire vengono considerate come un punto di non ritorno: la prova che la pace sta tornando nel Paese malgrado le sacche di resistenza Shabaab. All’Onu c’è fretta di chiudere il dossier somalo per trattarlo finalmente come post-conflict. Il 2020 deve diventare l’anno elettorale di svolta.
Mario Giro è docente di relazioni internazionali. Già viceministro degli Affari esteri e responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio. Esperto in mediazioni e facilitazioni nei conflitti armati, cooperazione internazionale e sviluppo, Africa, Medio Oriente e America Latina. Autore di vari saggi e collaboratore di numerose riviste, ha recentemente pubblicato per Guerini e Associati Global Africa. La nuova realtà delle migrazioni: il volto di un continente in movimento.