Il governo marocchino si distingue di nuovo per la repressione alle libertà di opinione e di espressione. L’ultima vittima è il giornalista Omar Radi, arrestato con l’accusa di attentato alla sicurezza dello Stato e di violenza sessuale. Oltre alle organizzazioni di difesa dei diritti umani, la società civile marocchina e di tutto il mondo si mobilita per la sua liberazione
A 33 anni, il giornalista, blogger e militante dei diritti umani marocchino Omar Radi, co-fondatore del sito di informazione e di inchiesta “indipendente e interattivo” Le Desk, conosce già bene i metodi di intimidazione utilizzati dal governo marocchino per mettere a tacere voci critiche. L’accusa principale dell’arresto del 29 luglio scorso è quella di essere implicato in un presunto affare di finanziamenti con servizi segreti esteri. Tuttavia, questa non era la prima volta che Radi aveva a che fare con la polizia marocchina, visto che già a marzo scorso era stato condannato a quattro mesi di prigione con condizionale (pena poi sospesa) e a pagare un’ammenda dopo aver pubblicato un tweet nell’aprile del 2019 in cui criticava il verdetto di un giudice per la condanna di alcuni militanti del movimento Hirak du Rif. Prima dell’ultimo arresto, il giornalista era stato convocato il 15 luglio per essere interrogato per la quinta volta in meno di un mese.
Stesso copione
A quanto Omar Radi stesso ha dichiarato, il provvedimento giudiziario è sopravvenuto qualche giorno dopo la denuncia di Amnesty International riguardo al fatto che il suo telefono fosse oggetto di cyberspionaggio attraverso un dispositivo implementato nel 2019 dall’impresa israeliana Nso group, specializzata nello sviluppo di cyber intelligenza e di software di sorveglianza. Pegasus, il nome in codice del software in questione, è ideale per realizzare intercettazioni e ottenere informazioni dai telefoni dei suoi bersagli. L’azienda ufficialmente «crea tecnologie che aiuta le agenzie di governo a prevenire e investigare su terrorismo e crimine per salvare migliaia di vite nel mondo», si legge nell’interfaccia del suo sito. Ma non tutti i suoi clienti, magari governi autoritari e repressivi, lo usano per questo. «Le autorità marocchine devono far luce su questo affare di sorveglianza illegale di cui è vittima il giornalista, piuttosto che perseguitarlo», aveva dichiarato Souhaieb Khayati, direttore dell’Ufficio di Reporter Senza Frontiere (Rsf) in Nordafrica. Da parte sua il giornalista, noto per le sue inchieste contro la corruzione in Marocco e sul sostegno ai movimento sociali, ha lasciato intendere di sentirsi sotto sorveglianza dal 2011. A ottobre del 2019 AI aveva già denunciato in un rapporto l’utilizzo dello stesso dispositivo di controllo sui telefoni di Maati Monjib, accademico e militante sulle questioni della libertà di espressione, e dell’avvocato Abdessadak El Bouchattaoui, specializzato in diritti umani implicato nella difesa dei manifestanti delle proteste del movimento di Hirak, che si sono svolte nella regione del Rif nel 2016 e 2017.
Oltre che a quella di spionaggio, Radi deve rispondere anche all’accusa di violenza e stupro, assurda secondo l’opinione pubblica e i suoi colleghi giornalisti, che denunciano un giudizio politico non basato su fatti reali. Il copione repressivo nei confronti dei media in Marocco sembra infatti essere sempre lo stesso, basato su una campagna denigratoria nei media di Stato, (la stessa che tra l’altro la sede di Amnesty International locale sta denunciando nei suoi confronti), come avvenuto anche ad altri giornalisti: un esempio è Taoufik Bouachrine, editore del quotidiano indipendente Akhbar al-Yaoum, condannato a fine 2018 a 12 anni di carcere più ammenda per accuse di stupro e tratta di essere umani.
Sotto bavaglio
Secondo il rapporto sulla libertà di stampa 2020 dell’Rsf, il Marocco si colloca alla 133 posizione su 180. Nel febbraio 2020, l’Associazione marocchina dei diritti umani e Human Right Watch hanno dichiarato in un comunicato stampa come solo «dal settembre 2019, le autorità marocchine abbiano arrestato e perseguitato almeno 10 attivisti, artisti o altri cittadini che non hanno fatto altro che esprimere pacificamente opinioni ciritche su Facebook, YouTube o attraverso canzoni rap». La situazione è testimoniata anche da Radi stesso durante un’intervista del 2 gennaio a France 24, dopo una seduta del processo a Casablanca per rispondere all’accusa di “oltraggio a magistrato”, che porterà poi alla già citata condanna di marzo: «Sono il più privilegiato e fortunato tra tutti quelli che sono in prigione oggi: sono molto numerosi, detenuti di opinione, detenuti politici…solo durante questi giorni che ho passato in prigione ci sono stati altri cinque arresti, persone che pubblicano su YouTube, su Facebook, nei canali social in generale. È verso queste persone che bisogna indirizzare la solidarietà».
Mobilitazioni
In effetti la società civile marocchina e internazionale non è rimasta a guardare di fronte alle ripetute intimidazioni nei confronti di Omar Radi. Alle denunce e agli appelli di Rsf, Amnesty International, Fidh e Human Right Watch, si aggiungono in rete quelle di varie realtà, oltre che a quelle sulla pagina Facebook “Free Omar Radi“. Già a gennaio, attorno al suo arresto si era creata una vasta campagna di mobilitazione sia in Marocco che all’estero. A luglio, 110 giornalisti si sono mobilitanti in Marocco facendo appello al Consiglio nazionale della stampa. Il 22 agosto, i marocchini residenti in Francia hanno lanciato un appello “a tutte le forze democratiche in Francia e nel mondo intero, chiedendo di esprimere il loro sostegno in favore della causa della libertà di espressione che incarna, in questo momento, il giornalista Omar Radi”. On-line, circola la petizione per chiedere il rilascio del giornalista.
(Luciana De Michele)