Un piccolo popolo della Mauritania costretto a cambiare stile di vita per sopravvivere. Un tempo vivevano nel deserto cacciando selvaggina e raccogliendo erbe e frutti selvatici. Oggi allevano dromedari. Disprezzati da arabi e berberi, che li considerano selvaggi e inferiori, i Nemadi sono relegati ai margini della società. Ma non hanno smarrito la loro libertà
di Elena Dak – foto di John Wessels / Afp
A sud di Oualata può capitare di incontrarli a un pozzo mentre abbeverano i dromedari. Se a prima vista pare di aver visto la stessa scena tante volte, a uno sguardo più attento ci si accorge che quelle genti sono diverse: magri, sì, come tutti, le vesti non sempre blu, a differenza di tutti gli altri, gli occhi talvolta chiari, come quasi nessuno. Sono i pochi segni di distinzione rimasti dei Nemadi. La loro storia è molto difficile da rintracciare perché quasi nessuno la ricorda. E i libri di antropologia non chiariscono le origini di questo popolo chiaramente distinto dai principali gruppi che costituiscono la società maura.
In Mauritania, berberi e arabi sono considerati come costituenti un’unica comunità, quella dei bidan (“dei bianchi”). L’assimilazione è cominciata a partire dal XVI secolo, quando arrivarono in Mauritania le tribù arabe degli Hassan, che vinsero e assorbirono le popolazioni berbere locali. Molte fasce della popolazione da quell’epoca in avanti divennero tributarie degli arabi e la piaga del lavoro servile, termine sfumato per parlare di schiavitù, si radicò nella società.
L’origine del nome
I Nemadi erano una delle minoranze non schiave, ma soggette al pagamento di tributi così come gli Imraguen, pescatori stanziati lungo la costa settentrionale. Oggi i Nemadi sono pastori, dediti all’allevamento di dromedari, ma fino a un passato piuttosto recente erano cacciatori di piccola selvaggina e raccoglitori di frutti ed erbe selvatiche. Il loro nome ricorda il termine “nomade” che trova la propria etimologia nel greco nomós (“pascolo”). In ambito antropologico il termine è solitamente attribuito alle popolazioni che vivono di pastorizia in vasti territori aridi di cui sono abili conoscitori e di cui sfruttano le scarse risorse sparse, acqua ed erba, spostandosi secondo diverse modalità e ritmi con i loro animali.
Oggi si tende a prestare la parola e il concetto a tutti i popoli senza fissa dimora, abitatori di luoghi desertici e dediti all’erranza, seppure non pastorale. È il caso dei Nemadi, detti anche N’Madi, cacciatori arabofoni stanziati fino agli anni Ottanta del secolo scorso nell’area di Nema, da cui presumibilmente prendono il nome, a sud della più nota oasi di Oualata.
Vita precaria
Oggi i Nemadi non posseggono terre e abitano in capanne piuttosto precarie, realizzate con paglia e pezzi di tessuti, assai diverse dalle classiche khaima dei mauri (tende tessute in pelo di capra e cammello, e ora sempre più spesso di cotone bianco). Non ci sono censimenti ufficiali che ci permettano di risalire a numeri aggiornati, ma si stima che siano davvero pochi, alcune centinaia. Tra le ragioni che spiegano il calo demografico e il cambio di vita c’è la riduzione della selvaggina che cacciavano, in particolare antilopi, orici e gazzelle addax. La drastica diminuzione del numero di capi non è stata causata da loro, ma da un insieme di fattori tra i quali la caccia indiscriminata che i Mauri, prevalenti nel Paese, hanno attuato nei decenni passati con l’aiuto di armi moderne e mezzi motorizzati.
La gazzella dama, di grossa taglia, per esempio, un tempo era diffusa in tutto il Sahara, ma oggi conta ormai pochissimi esemplari. La desertificazione, alimentata dai cambiamenti climatici, sta riducendo il suo habitat in maniera irreversibile anche in Mauritania. La caccia è stata bandita per salvaguardare la specie. Ma il divieto indiscriminato ha finito per penalizzare proprio le comunità povere e fragili, come quella dei Nemadi, che traevano dalla sua carne la fonte principale di sostentamento e che ora faticano a sfamarsi. Come per tutte le genti abituate a vivere di movimento negli spazi sconfinati, la sedentarizzazione è quanto di più lontano si possa proporre loro, e forse l’allevamento di dromedari è il male minore, tenendo conto che si tratta dell’animale di maggior pregio nel Paese, il cui possesso garantisce anche un certo prestigio.
Isolati da tutti
Tuttavia i Nemadi vivono ai margini della società. Considerati “selvaggi” e inferiori dai Mauri, sono stati relegati fuori dalla piramide delle classi sociali (come gli intoccabili dell’India), considerati persino inferiori agli harratin, i neri subsahariani.
Si narra che i Nemadi avessero l’abitudine di cacciare nelle ore più calde della giornata, quando le prede erano già affaticate dal calore. L’uso di cani (talmente preziosi da rientrare nella dote matrimoniale), abilissimi nell’isolare e immobilizzare la preda, rendeva i Nemadi unici e rinomati nelle aree sahariane. Forse proprio il fatto che si muovessero assieme ai cani, animali che in tutto il mondo arabo-islamico sono indicati come impuri e indesiderati, li ha resi invisi ai più. Parlò di loro anche Bruce Chatwin nel suo capolavoro Le Vie dei Canti. Egli cita anche i Nemadi come «paria» della Mauritania che condividono «con allegria e con grazia» questa condizione di emarginati con i pescatori imraguen, nomadi del mare che seguono i banchi di cefali.
Come tutte le minoranze, i Nemadi hanno subito discriminazioni e pregiudizi. Il fatto che oggi di loro si sappia poco o nulla ci fornisce due indicazioni: la loro diluizione dentro il tessuto sociale dominante, e l’oblio che sembra essere calato sulla loro civiltà. Nella loro solitudine, sono riusciti comunque a ritagliarsi uno spazio di libertà nel cuore del deserto.
(Elena Dak – foto di John Wessels / Afp)
Questo articolo è uscito sul numero 6/2020 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop