L’immigrazione in Italia, come è già avvenuto negli altri Paesi sviluppati, sta assumendo sempre più un profilo familiare (Maurizio Ambrosini, Famiglie nonostante. Quando gli affetti sfidano i confini, Bologna, Il Mulino, 2019). Anche nel 2018, come negli anni precedenti, la maggioranza dei nuovi permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi extra-Ue (il 52,4%), sono stati concessi per motivi familiari.
Oggi però anche le famiglie immigrate, per un certo periodo abbastanza accettate, si vengono a trovare in una posizione centrale del dibattito europeo su immigrazione, integrazione e multiculturalismo, sottoposte come sono a tensioni sempre più forti: il rispetto dei diritti umani nel quadro delle legislazioni nazionali obbliga i governi democratici all’apertura nei confronti dell’arrivo dei familiari, mentre la paura di sopportare costi sociali aggiuntivi induce a introdurre, e non di rado ad aggravare, vari vincoli che limitano per gli stranieri provenienti da paesi poveri la possibilità di beneficiare del diritto alla vita familiare: vincoli di anzianità di residenza, di reddito, di requisiti abitativi, di età per i figli, di grado di parentela per altri congiunti.
L’immigrazione familiare è dunque coinvolta nell’irrigidimento della regolazione politica dell’immigrazione. Appare in alcuni Paesi come il luogo per eccellenza della formazione di «vite parallele», ossia di comunità impermeabili al contatto con la società ricevente e chiuse nella riproduzione della propria diversità culturale. Africani e musulmani sono al centro delle polemiche. Le famiglie immigrate da certe aree del mondo sono sospettate di essere l’ambito in cui, al riparo delle mura domestiche, si riproducono l’oppressione patriarcale e le disuguaglianze di genere. Sono temute come potenziali agenzie di introduzione di costumi culturalmente stigmatizzati, come la poligamia. Sono sotto osservazione per il timore che alimenti pratiche illiberali e lesive della dignità umana, dai matrimoni combinati alle mutilazioni genitali femminili.
Si nota dunque una sorta di doppiopesismo in fatto di famiglia: malgrado molti governi e forze politiche proclamino ad alta voce il valore della famiglia, quando si tratta di famiglie immigrate la loro voce si affievolisce o cambia di tono. Alle famiglie immigrate non viene riconosciuto il valore sociale attribuito alle famiglie native. Anzi, le famiglie immigrate possono essere temute e attaccate come protagoniste della cosiddetta «sostituzione etnica» della popolazione autoctona.
Riaffiora qui, tra l’altro, una visione delle donne migranti come soggetti passivi delle migrazioni, e spesso come vittime: anche le campagne politiche contro il velo sono state giustificate, con implicito paternalismo, come battaglie in difesa delle donne contro l’oppressione esercitata su di loro da padri e mariti. La stessa protezione loro accordata ha come contrappeso una visione vittimistica e passivizzante della mobilità migratoria al femminile. A loro volta, gli uomini sono sì investiti di un protagonismo, ma declinato in termini oppressivi e patriarcali.
Il paradosso è che certe tematiche femministe vengono oggi riprese in chiave anti-immigrati, ottenendo un consenso trasversale a volte insospettabile. Si sostiene di voler difendere le donne, ma in realtà si imprigionano gli immigrati, specie se provenienti da alcune aree del mondo, entro stereotipi preconfezionati: le donne come vittime, gli uomini come oppressori retrogradi.
Maurizio Ambrosini. Docente di Sociologia delle Migrazioni nell’Università degli Studi di Milano, insegna anche nell’Università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro Studi Medì di Genova, dove dirige la rivista Mondi Migranti e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni.