I candidati alla partenza sono sostanzialmente i richiedenti asilo in transito oggi trattenuti in Libia: 6000 circa nei centri di detenzione governativi, attorno ai 65.000 comprendendo anche gli altri, spesso detenuti da milizie e bande criminali
La nuova disputa su profughi dalla Libia, del tutto eventuali, conferma il sovraccarico essenzialmente simbolico e ideologico, per non dire elettoralistico, che grava sulle politiche migratorie.
Anzitutto è strumentale e interessato l’allarme lanciato dal presidente libico al-Sarraj, che ha sventolato la minaccia di 850mila profughi in marcia sull’Europa. L’intento abbastanza trasparente è quello di spaventare i governi europei e, prima di tutto, quello italiano, per attrarne un più convinto e fattivo sostegno al suo traballante potere su Tripoli e dintorni. Qui andrebbe ricordato che la Libia ha già prodotto centinaia di migliaia di rifugiati negli anni scorsi, ma questi hanno trovato scampo nei Paesi vicini, Tunisia ed Egitto: assai più facili da raggiungere via terra, in auto, senza rischiose traversate del mare.
Forse il presidente libico non ha calcolato che l’enfasi sui numeri dei profughi in arrivo è stata già agitata a più riprese, ma al servizio della macchina della paura e delle politiche di chiusura. Di fatto, i candidati alla partenza sono sostanzialmente i richiedenti asilo in transito oggi trattenuti in Libia: 6000 circa nei centri di detenzione governativi, attorno ai 65.000 comprendendo anche gli altri, spesso detenuti da milizie e bande criminali in condizioni ancora più disumane.
Di Maio ha approfittato della circostanza per cercare assai tardivamente di prendere le distanze dal suo scomodo e dominante partner di governo annunciando un nuovo relativismo sulla chiusura dei porti: una politica che aveva visto lui e il suo partito finora succubi, allineati con la linea della disumanità sostenuta da Salvini e dalla Lega. Ora, con le elezioni europee alle porte e i sondaggi a picco, riscopre una vena umanitaria finora assai flebile e mai tradotta in azione.
A sua volta il ministro degli Interni non ha perso l’occasione per dilatare ancora una volta la sua ombra incombente sull’azione dell’esecutivo, ribadendo che non c’è guerra che tenga: le porte dell’Italia rimarranno chiuse. La Costituzione, le convenzioni internazionali e i trattati europei sono a rischio di cancellazione mediante un tweet. L’Italia non tutela più i diritti umani, neppure nel caso di una guerra a poche miglia dalle sue coste. Ancora una volta si alimenta la paura per isolare il Paese, parlando di centinaia di terroristi pronti a imbarcarsi per l’Europa. Forse andrebbe ricordato che anche questo argomento è già stato sventolato molte volte in questi anni, eppure i responsabili di attacchi terroristici non sono mai arrivati direttamente dal mare. Solo in un paio di casi erano ex rifugiati, ma passati attraverso le carceri e altri fallimenti che ne hanno innescato la radicalizzazione.
Desta una certa sorpresa che a difendere i diritti umani e le leggi del mare si siano levate almeno per un attimo le autorità militari e la ministra della Difesa. Si tratta certamente di uno scatto d’orgoglio rispetto alle invasioni di campo di Salvini e alle mortificazioni inflitte a una Marina militare fin qui silente. Ma questa volta la rivendicazione delle proprie autonomie e competenze da parte di un corpo dello Stato diventa un’alleata inattesa del diritto umanitario.
È un cardine del nazional-populismo il disprezzo delle prerogative degli organi indipendenti o comunque dotati di una propria autonomia tecnico-operativa, di quel sistema di contrappesi e controlli che sostiene il funzionamento dei sistemi democratici. Ed è una risorsa di una democrazia sostanziale, non ridotta a plebiscito elettorale, l’autonomia di questi corpi dello Stato. La vicenda dei profughi annunciati ci illustra quanto la difesa dei diritti umani sia profondamente intrecciata con i fondamenti di una democrazia solida e fedele ai propri valori.
Maurizio Ambrosini. Docente di Sociologia delle Migrazioni nell’Università degli Studi di Milano, insegna anche nell’Università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro Studi Medì di Genova, dove dirige la rivista Mondi Migranti e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni.