“Ma che cosa fa l’Europa sulle migrazioni?”. Certamente non si parte da un approccio entusiasmante, visto che… il ”regolamento di Dublino” è sempre lì. L’Ue ha però messo in campo, tra molte resistenze, una serie di programmi, soprattutto a partire dal Parlamento. Ne parla una protagonista.
Alla domanda «che cosa fa l’Europa sul tema delle migrazioni?» si rimane spesso senza parole perché si tratta di parlare contemporaneamente di due concetti. Il primo è la complessità con cui funzionano le istituzioni europee, che lavorano di concerto ma spesso con impostazioni contrastanti; il secondo, forse il più importante, è la comprensione delle moltissime sfaccettature attraverso cui si manifesta il fenomeno migratorio.
Il fatto è che la migrazione è una questione mondiale, che comporta lo spostamento di 250 milioni di persone attraverso le frontiere delle singole nazioni. Il carattere mondiale della migrazione dei nostri tempi si evince così anche dall’alto numero di Paesi a vario titolo coinvolti dal fenomeno, di cui alcuni possono essere considerati punti caldi.
Potrà apparire sorprendente, ma l’Europa non è la destinazione privilegiata delle odierne migrazioni: anzi, con soli 35 milioni di migranti transfrontalieri (di cui più di 15 milioni sono europei che si spostano all’interno del continente) l’Europa si può ritenere il continente meno toccato dal fenomeno migratorio. Questo dato, riferito a quella che la retorica politica chiama “migrazione economica”, si assottiglia maggiormente se dovessimo fare delle considerazioni sui rifugiati ed i richiedenti asilo.
Guardando quindi lucidamente il fenomeno migratorio sotto l’aspetto numerico diventa evidente come l’allarmismo dell’invasione, diffuso dalle forze politiche populiste, sia totalmente pretestuoso e non giustificato nei fatti. Però, attecchendo su una certa fascia della popolazione ha condizionato in modo irreversibile le politiche europee in materia di immigrazione.
Sulla questione immigrazione l’Europa ha messo in campo, nonostante le molte resistenze, una serie di programmi che possono tornare utili per rispondere alla nostra domanda iniziale. Certamente non si parte con un approccio entusiasmante: fra i pochi argomenti che hanno visto i Paesi europei mettersi tutti insieme attorno un tavolo per riflettere sulla migrazione possiamo citare l’istituzione della Guardia Costiera e di Frontiera, e l’adozione del regolamento di Dublino – tra l’altro incentrato sul tema dell’asilo.
La libera circolazione delle popolazioni europee all’interno del continente è ormai ritenuta acquisita, ma cosa succede se a voler circolare liberamente in tutta Europa è un cittadino straniero? Il regolamento di Dublino ha fornito una prima risposta, formulando e rinforzando un approccio nazionalistico e sovranista della gestione dell’asilo attraverso l’istituzione del concetto di “Paese di approdo”. Il principio secondo cui ogni Paese si tiene a proprie spese i richiedenti asilo che riceve è cosi diventato l’emblema di una timida politica europea sull’asilo, che oltretutto non ha proferito una parola sull’immigrazione regolare, lasciando ad ogni Paese la facoltà di legiferare sulla questione come meglio crede. L’approccio originario dell’Europa sull’immigrazione è cosi apparso febbrile, negativo e incentivante degli egoismi nazionali, con la conseguenza diretta che in molti Paesi membri dell’Unione europea si sono consolidate vere e proprie filosofie xenofobe.
Nel panorama delle istituzioni europee, se possiamo individuare il Consiglio Europeo come il luogo di esasperazione di questi egoismi, occorre dire che il Parlamento Europeo ha intrapreso già da diversi anni il percorso inverso, che punta a una visione più totalizzante dell’immigrazione. Questo nuovo approccio, detto olistico o globale, nasce con il sigillo italiano: la risoluzione dell’Europarlamento adottata nel mese di aprile del 2016 discende da un dossier di cui sono stata principale relatrice insieme alla maltese Metsola. Nella risoluzione, abbiamo rovesciato il modo di pensare all’immigrazione, chiedendo che l’approccio europeo al fenomeno potesse partire dalle considerazioni sulle ragioni profonde che spingono le persone a partire dalle loro terre, per poi considerare le condizioni di viaggio e di accoglienza in terra europea. Rispetto alla visione minimalista e sovranista del regolamento di Dublino, abbiamo identificato 10 punti che sono confluiti nella risoluzione, e che fungono da linee d’indirizzo del Parlamento, fondamenta del lavoro della Commissione e del Consiglio.
Basandosi sui valori espressi nella risoluzione, l’Europa ha intrapreso un nuovo percorso sulla questione delle migrazioni, mettendo in campo politiche apprezzabili. Sulla questione principale dell’eliminazione delle cause profonde dell’immigrazione, seguendo anche l’Agenda 2030 dell’Onu sullo Sviluppo Sostenibile e sul contrasto alla povertà, l’Europa ha ideato una nuova strategia di partenariato con il continente africano, che è di gran lunga la prima origine delle migrazioni verso l’Europa. Lo stanziamento di un nuovo fondo europeo per gli investimenti esteri, dell’ordine di 4 miliardi di euro, è da ritenersi la prima concretizzazione di questo approccio, che vuole superare la filosofia dell’aiuto per entrare in quella del partenariato win-win con i Paesi africani. Verso l’Africa confluiscono non soltanto nuove forme di finanziamenti, ma anche nuovi attori della cooperazione provenienti dal settore privato. Sono chiamati a collaborare con le realtà locali africane per la creazione dei posti lavoro utili per trattenere la gioventù sul posto, offrendo loro prospettive di una vita migliore.
Certo l’istituzione del nuovo fondo europeo per gli investimenti esteri non è avvenuta in sostituzione degli strumenti di cooperazione che esistevano prima. Il Fondo europeo per lo sviluppo, lo strumento per la cooperazione allo sviluppo, il fondo per le emergenze umanitarie e le dotazioni finanziarie per le relazioni strategiche estere continueranno ad essere utilizzati come sostegno allo sviluppo del continente. Ma la definizione del nuovo fondo europeo per gli investimenti esteri e lo stanziamento di fondi fiduciari utilizzati in parte anche per contrastare il terrorismo nel Sahel e nel Corno d’Africa sono le principali novità dei programmi politici europei in direzione dell’Africa, la cui finalità è promuovere lo sviluppo del continente e, si spera, limitare le migrazioni.
Insieme a queste misure, una batteria di altre misure europee sono assunte sul fronte della sicurezza, comprendendo i vari interventi attorno al Mediterraneo e nelle zone più interne dell’Africa, quali il Sahel e il Corno d’Africa.
Possiamo quindi parlare effettivamente di un più spinto attivismo dell’Europa sul fronte dell’immigrazione. Sull’insieme degli stanziamenti evocati sopra, che ammontano all’incirca a 120 miliardi di euro, si può dire che l’Europa si presenta un po’ timidamente in Africa, se il confronto viene fatto con centinaia di miliardi di euro che la Cina ha stanziato per la cooperazione sino-africana. L’approccio europeo è tanto più timido che l’Europa sconta una storia di colonizzazione e di sfruttamento del continente africano durata oltre 5 secoli, e che riscontra, da parte dei dirigenti del continente africano, una evidente diffidenza.
Permangono poi i tratti dell’egoismo dei singoli Stati europei, essendo che fino ad oggi è rimasto in vigore il regolamento di Dublino, nonostante gli sforzi del Parlamento per superarlo e portare l’Europa alla definizione di una vera politica comune dell’immigrazione. Il divampare del populismo xenofobo in diversi Paesi e il tentativo di alzare muri lungo le frontiere dell’Europa non facilitano la definizione delle vie legali dell’immigrazione, con chiare strategie di rilascio dei visti. Questo ha come conseguenza la persistenza dell’immigrazione irregolare, che pone grossi problemi di integrazione alle persone che giungono sul continente, e che spesso si trovano in situazioni di negazione dei propri diritti fondamentali. Ricordiamo infine che l’immigrazione è una risorsa per l’Europa, ancor prima che per gli immigrati stessi e per il loro Paese.
Cécile Kashetu Kyenge è stata deputata della XVII legislatura, e Ministra per l’Integrazione.
Dal 2014 è eurodeputata del gruppo S&D. All’interno del Parlamento Europeo è membro della Commissione Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni (LIBE) e della Commissione per lo Sviluppo (DEVE), co-presidente dell’Intergruppo del Parlamento Europeo Anti-Racism and Diversity Intergroup (ARDI), Vicepresidente dell’Assemblea parlamentare paritetica Acp-Ue e componente della Delegazione per le relazioni con il Parlamento PanAfricano.