Visita agli stupefacenti laghi dell’Erg di Ubari, nel profondo sud della Libia. Nel cuore del Fezzan, tra dune spettacolari, i sogni diventano realtà. Come oasi da cartolina, dalle sabbie incandescenti affiorano venti laghi perenni, verdi come smeraldi, circondati dalle palme. Un tempo erano la meta più ambita dai turisti sahariani. Oggi restano uno straordinario prodigio della natura. Tesori purtroppo attualmente inaccessibili, con la speranza si possa tornare a visitarli presto, quando la situazione politica sarà nuovamente stabile
di Elena Dak – foto di Marco Trovato
Hassan è magrissimo, alto almeno 1 metro e 90, avvolto in amplissimi sarruel (pantaloni tuareg) neri su cui scende una tunica lunga beige come il turbante sollevato sopra il naso. È immobile, in piedi vicino alla sua 4×4, le mani affusolate lungo i fianchi, ai piedi un paio di mocassini di vernice nera stile damerino del Settecento. Ogni tessuto è logoro, sbiadito e un po’ sporco, ma addosso a lui risulta adeguato al luogo e alla circostanza. Hassan è uno degli autisti che mi conduceva nel deserto del sud della Libia quando il Paese era meta prediletta degli amanti del Sahara. Uno di quei Tuareg, passati dal dromedario al fuoristrada, con piedi sensibili sui pedali, dimestichezza e agilità sulla sabbia e un gps nel cervello. Con lui ho scoperto i prodigiosi laghi del deserto libico. Una meraviglia della natura unica al mondo.
Da Tripoli, in un’ora di volo (quando il volo c’era) si può raggiungere, 800 chilometri più a sud, Sebha, cittadina anonima e capitale del Fezzan, regione che si estende, verso ovest, fino alla falesia del Tadrart Akakus, sito Patrimonio dell’Unesco, oltre la quale ci sono il Tassili e l’Algeria. Cominciava sempre da qui l’avventura nel sud della Libia, terra di dune e pietraie, acacie spinose e inattesi, carnosi, fiori viola: le Calotropis procera.
Un mare di sabbia
Una cerniera d’asfalto, circa 350 chilometri, unisce il sud con uno degli erg più vasti di tutta la Libia: l’Erg di Ubari. Le auto incidono scie parallele sulle dune, accelerando per galleggiare sul fesh-fesh molle e insidioso, e scendono lente e perpendicolari dagli irti versanti sabbiosi. Le montagne di sabbia sono così ripide che la visibilità del percorso è pari a zero. Basta che un’auto scenda oltre un pendio prima delle altre per pensare che sia stata inghiottita dal nulla: tutto scompare. E tutto riappare.
All’improvviso, tra le sabbie, giù in fondo, spunta uno spicchio di blu orlato di palme. I laghi incastonati tra le dune dell’Erg di Ubari, alimentati da una falda sottostante e profondi diversi metri, residuo di una delle epoche umide sahariane, sono numerosi, una ventina, ma i più frequentati sono Mandara, Um el Màa e Gabraòn. Sembrano l’immagine paradigmatica dell’oasi nel deserto, l’acqua agognata dopo una lunga traversata.
I laghi che ora sopravvivono nel mezzo delle sabbie non sono altro che i relitti di un grande lago che si dice avesse un’estensione di 120.000 chilometri quadrati, un mare evaporato nel Sahara. Lentamente, nel corso dei secoli, il cambiamento climatico ha prodotto un inaridimento progressivo, fino a giungere all’attuale condizione iperdesertica. Il grande lago è evaporato, ma sono rimasti piccoli specchi di acqua salata in mezzo alle dune, circondati da graziose cinture di palme.
Paese-fantasma
Il Lago di Gabraoun (“la tomba di Aoun”) è affiancato dal vecchio villaggio, di cui restano solo ruderi di argilla, in cui vivevano i Dauada, una popolazione che si cibava prevalentemente dei piccoli gamberetti presenti nelle acque. Poche decine di anni fa, il colonnello Gheddafi impose di far trasferire altrove le persone per garantire loro, a suo dire, condizioni di vita più decorose. Si trattò, di fatto, di una vera deportazione di massa. Il Colonnello stesso agli inizi del suo mandato li aveva presi come esempio di vita improntata alla semplicità e alla dignità, lontano dagli eccessi tipici delle società occidentali corrotte dal consumismo. In realtà i Dauada erano visti dagli arabi con un certo disprezzo, tanto da essere definiti «mangiatori di vermi», per via del crostaceo rosso presente nei laghi (la Artemia salina) di cui si cibavano, che veniva raccolto con reti a trama molto sottile dalle donne insieme a un’alga. Il tutto, lavato e pressato in piccole ciambelle, veniva essiccato e interrato per mesi fino a raggiungere un grado di fermentazione adeguato per il consumo.
Gli uomini, che avevano sviluppato una tecnica efficacissima per puntare i piedi nella sabbia e camminare agilmente sulle dune, erano dediti alla raccolta del natron, che le carovane di Tuareg compravano direttamente nel loro villaggio. Ora i Dauada vivono nel villaggio di Germa, in case moderne, e tornano solo sporadicamente ai laghi per qualche scampagnata.
Acque salatissime
Fare il bagno nelle acque di Um el Màa (“la madre dell’acqua”, in arabo), salatissime e a temperature diverse, è un’esperienza a cui è impossibile sottrarsi: zone d’acqua quasi bollente si alternano, nette, a zone d’acqua fresca o meglio fredda. Difficile nuotare, perché l’elevato tasso di salinità tende a spingere il corpo fuori dall’acqua. È come immergersi dentro un miraggio divenuto realtà. L’alto grado di salinità è dovuto all’altissima evaporazione, non compensata da un costante afflusso di acqua dolce se non quella piovana. Cento metri più in là, una fonte d’acqua dolce permette di sciacquare via il sale in eccesso: secchiate gelide sotto un sole di fuoco.
Grazie alle tante evidenze ottenute attraverso lo studio dei pollini, alle analisi stratigrafiche dei siti rupestri abitati, all’osservazione dei fossili nei depositi fangosi tipici di ambienti acquatici, è assodato che il Sahara molte migliaia di anni fa era un contesto climatico e ambientale ben diverso, dove le acque abbondavano e il manto vegetale era presente e in alcuni casi fitto e adatto alla vita di una ricca fauna, terrestre e acquatica. Prova ne è che quel che vediamo ai giorni nostri, nel più vasto deserto del mondo, non è altro che l’esito del lavoro millenario delle acque e, scoperto al sole impietoso, ci appare lo scheletro di un articolatissimo sistema idrografico. Quando il Sahara era umido, quelli che noi oggi chiamiamo uadi erano veri fiumi, e la pesca una delle attività prevalenti.
Pesci dal Nilo…
Lo conferma il professor Savino Di Lernia, docente di etnografia preistorica dell’Africa alla Sapienza di Roma e direttore della Missione archeologica nel Sahara dell’ateneo, che ebbe come maestro Fabrizio Mori, colui che dedicò la sua vita allo studio delle pitture e graffiti rupestri del deserto libico divenendone il massimo esperto.
Ora lo studio della fauna acquatica svoltosi presso la falesia di Takarkori nell’Akakus, poco a sud-ovest ripeto ai laghi, pubblicato da Di Lernia che ha coordinato un team di ricercatori, rivela che il pesce era il principale alimento nella dieta degli abitanti del Sahara di 10.000 anni fa. Il sito di Takarkori ha restituito agli studiosi migliaia di lische di specie ittiche oggi presenti nel Nilo o nei grandi laghi africani. È emerso che la tilapia era prevalente in una fase iniziale, fin quando il pesce gatto ha preso il sopravvento. Un pesce, quest’ultimo, che grazie al suo sistema respiratorio è in grado di sopravvivere in acque poco ossigenate e a basso fondale. È questo un indizio chiave nella ricostruzione scientifica del processo di progressivo inaridimento della regione.
Di Lernia evidenzia che «la presenza di specie tipiche dell’Africa orientale ha permesso di ricostruire la progressiva migrazione di pesci dal Nilo al centro del Sahara, avvenuta quando l’ambiente era più umido e offriva delle vie d’acqua tra loro connesse, e questo rende possibile ricostruire l’antico reticolo idrografico della regione sahariana e la sua interconnessione con il Nilo, fornendo informazioni cruciali sui drammatici cambiamenti climatici che hanno portato alla formazione del più grande deserto caldo del mondo».
L’acquedotto di Gheddafi
Ma il cambiamento climatico interferì anche nell’alimentazione degli antichi abitanti del Sahara, che presero a mangiare sempre più mammiferi. La pastorizia si diffuse in maniera crescente e i fiumi diventarono sempre meno pescosi, fino a scomparire circa 5.000 anni fa. I laghi dovevano dunque essere protagonisti di questo pezzo di storia.
Negli anni Ottanta, Gheddafi pensò di portare fino alle città costiere, dove è stanziata gran parte della popolazione libica, l’acqua dell’enorme giacimento fossile nelle profondità del Sahara. Quest’opera faraonica – che in molti ricordano perché quando l’acqua giunse a Tripoli il Colonnello quasi inondò la città, aprendo generosamente i rubinetti dell’acquedotto perché fosse a tutti chiaro il risultato ottenuto – nell’arco di un numero imprecisato di anni esaurirà la falda acquifera ed è probabile che i laghi risentiranno dell’abbassamento progressivo del livello delle acque che li alimentano.
Resta l’auspicio di tornare in Libia quando la situazione politica sarà nuovamente stabile. I laghi potranno accogliere nuovamente gli artigiani tuareg coi loro gioielli, i cuochi prepareranno il pane cotto sotto la sabbia all’ombra delle palme, a bordo lago. E dalle alte dune prospicienti il Lago di Gabraoun ci si potrà nuovamente lanciare a tutta velocità giù, fino al fondo, prima di tuffarsi.
(Elena Dak – foto di Marco Trovato)
Questo articolo è stato pubblicato nel numero 1/2021 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop