Trent’anni di distruzione. Che hanno fatto perdere perfino la memoria di quella che fu una delle città più celebrate del continente. L’Italia ha dato una sospirata prima risposta ai mogadisciani più addolorati e consapevoli: un team italo-somalo di ricercatori ha dato vita a una mostra, e adesso al catalogo, che permette di riscoprire un passato glorioso, vittima della guerra e poi del boom edilizio. Lo scopo è «far riappropriare gli abitanti della loro storia urbana».
Che cosa resta della capitale della Somalia, o, meglio, di quella «città molto grande con quattro torri e molti edifici di pietra di quattro piani» che Vasco da Gama scorse all’alba del 1499, e che si “limitò” a bombardare dal mare? E non furono nemmeno quelle le ferite più drammatiche e definitive che Mogadiscio – che si fregia del titolo di città più bella d’Africa (o per lo meno del Corno d’Africa, ma, per qualcuno, del mondo) – ha riportato nella sua storia millenaria. L’onda lunga della caduta del dittatore Siad Barre – 30 anni esatti il 26 gennaio scorso – non si è ancora del tutto esaurita in Somalia, con un bilancio di 500.000 morti e innumerevoli distruzioni. L’ultimo attentato lo abbiamo registrato su questo stesso sito giusto poche ore fa.
Gli ultimi anni hanno comunque visto il ritorno di molti somali dall’estero e una ripresa della vita economica, sociale e culturale: nel 2019, per esempio, sono usciti i primi laureati dalla ricostituita Università nazionale somala (Uns), sostenuta dalla Cooperazione italiana. La ripresa si è accompagnata a un boom del mattone, che però si è come incaricato di finire il lavoro della guerra. Ossia di cancellare anche le ultime vestigia degli edifici storici.
Salvare il salvabile
Non saranno molti, ma non mancano i mogadisciani preoccupati di questa perdita di memoria. Dalla nostra rivista cartacea e da queste pagine online ci siamo già fatti eco dell’importante lavoro di ricerca condotto da Nuredin Hagi Scikei, che egli ha trasformato in appello per la sua città (si veda anche la sua testimonianza su un “piccolo” scempio successivo alla pubblicazione del suo libro), e della voglia di ricostruire del giovane architetto Omar Degan, conscio della bolla speculativa edilizia in atto. Entrambi, diciamo en passant, sono rientrati a Mogadiscio dopo un lungo pezzo di vita trascorso in Italia (Omar, a dire il vero, ci è anche nato). Si rivolgono entrambi all’Italia perché, in forza dei rapporti storici tra i due Paesi, si adoperi per… salvare il salvabile.
Un primo cenno tangibile di risposta è venuto il 10 dicembre 2018. Quel giorno è stata inaugurata, nella sede del Comune di Mogadiscio, la mostra Mogadiscio e la sua evoluzione storico-urbanistica: pagine di storia della città. Cinquanta pannelli di fotografie, carte e piantine d’epoca, oltre a rendering elaborati per l’occasione nonché all’utilizzo di Google Earth per far risaltare le differenze tra ieri e oggi. Sono serviti due anni di ricerca in numerosi archivi italiani e in coordinamento con la Somalia: in particolare nella persona del citato ingegnere Nuredin – «la mente» di questa iniziativa, come l’ha definito il professor Lucio Carbonara, del Comitato scientifico della mostra – e naturalmente con istituzioni locali: l’Accademia delle Arti e delle Scienze di Mogadiscio, e l’Università; è del suo rettore Mohamed Ahmed Jimale, del resto, l’idea dell’esposizione fotografica. Curatrici dell’impresa, due architetti: Gabriella Restaino e Maria Spina.
Quest’ultima ci ricorda come «la componente integralista del Paese sia contraria a qualsiasi forma di documentazione e tutela del patrimonio culturale», e ciò spiega perché, terminata l’esposizione, i pannelli siano stati rapidamente rimossi e riposti in luogo sicuro. «Per i visitatori giovani, però, quello della mostra è stato un momento unico per apprezzare e prendere coscienza della loro città, in massima parte rasa al suolo. Ci sosteneva soprattutto la speranza che i giovani potessero davvero iniziare a vedere la loro città con altri occhi e, soprattutto, con un altro stato d’animo: adoperandosi quindi per il recupero di qualche architettura “residua” e ostacolando il verificarsi di ulteriori distruzioni».
«Una città bianca, sorridente»
Shingaani, costruita in riva al mare, sulla sabbia, e Hamarweyne, sulla roccia, sono i due nuclei originari della città: ben distinti, come risulta evidente dalle testimonianze fotografiche e topografiche, ma racchiusi da un’unica cinta muraria. Il primo, che è anche quello più sistematicamente devastato nel dopo-1991, era «il punto di smistamento per i traffici provenienti dai vari paesi dell’Oceano Indiano e diretti verso l’entroterra»; l’altro era «organizzato prevalentemente per il commercio di animali vivi (capre e cammelli) e di merci provenienti dall’Etiopia meridionale» (così Elio Trusiani recensendo Exploring the Old Stone Town of Mogadishu di Nuredine Hagi Shikei). A Hamarweyne (Amaruini secondo l’antica traslitterazione) fervevano anche l’attività della tessitura e il commercio di stoffe.
In epoca fascista, gli italiani pensarono bene di saldare (dubbi, però, i risultati) tra loro le due città, creando al tempo stesso un quartiere amministrativo. Il primo piano regolatore è datato 1929, e gli anni Trenta la città conobbe un’espansione, raggiungendo a metà decennio i 40.000 abitanti: si trattava di «creare la nuova città europea totalmente separata da quella indigena» (La Nuova Italia d’Oltremare, Mondadori, 1933), a spese, almeno in parte, dell’abitato preesistente, sul quale furono operati gli «sventramenti necessari».
Va però detto che l’architetto simbolo di quel periodo, Carlo Emilio Rava, ma non solo lui, cercò di sposare il razionalismo del tempo con un’attenzione al patrimonio architettonico locale. Anzi il suo fu «un omaggio all’architettura dei Banaadiri», leggiamo in Urbanistica e architettura alla prova della contemporaneità (un volume del 2018 a cura di Susanna Bortolotto e Renzo Riboldazzi, Altralinea edizioni). Oggi non sono pochi a rimpiangere il suo hotel Croce del Sud, convertito negli ultimi anni in centro commerciale così simile ai “non luoghi” di ogni latitudine.
Una trentina di moschee, talvolta con elementi di particolare originalità e talune molto antiche, caratterizzavano con i loro minareti lo skyline della città, che nel 1928 si arricchì anche di una solenne cattedrale neo-normanna, oggi una delle testimonianze più struggenti della devastazione causata da guerra e terrorismo. Insomma Mogadiscio era diventata un complesso di costruzioni che, nonostante interventi anche infelici, aveva finito per confermare il proprio fascino che la rendeva unica. La città bianca. «Inondata dal sole e dai colori dell’Oceano Indiano, una città bianca, sorridente che noi chiamavamo Xamar Adde. Una città di cui sento ancora il profumo, provo la carezza del vento che viene dal mare, una città pacifica come i suoi abitanti», è il ricordo che ne ha Shirin Ramzanali Fazel, l’autrice di Lontano da Mogadiscio (in SomalItalia. Quattro vie per Mogadiscio, a cura di Simone Brioni, KimeraFilm).
A uso (anche) delle scuole
Dopo il debutto a Mogadiscio, l’esposizione doveva toccare altri Paesi e città, a cominciare dall’Italia. C’è stata la tappa del maggio 2019 a Camerino, il cui ateneo è peraltro tra le istituzioni partner dell’iniziativa. Causa covid, si è però interrotta l’itineranza presso le altre università italiane presenti nel Comitato scientifico e anche in città europee, quali Stoccolma e Londra, con una significativa diaspora somala. Si sta ora pensando a presentazioni multimediali online.
Nel frattempo, lo scorso autunno è uscito il catalogo della mostra, che accanto ai nomi delle curatrici italiane vede quello di Khalid Mao Abdulkadir, presidente della Commissione parlamentare Cultura, Media e Informazione. Questi nella pubblicazione si rammarica che il suo Paese «abbia fatto così poco per proteggere questo importante patrimonio del passato». Presa di coscienza cui segue un impegno fermo: «Ora siamo intenzionati a invertire la rotta. Oggi, e non domani, vogliamo programmare e attuare concretamente la tutela e il restauro delle eredità del passato».
Tra gli interventi introduttivi del catalogo si conta quello della viceministra agli Affari esteri e alla Cooperazione internazionale, Emanuela Del Re, presente all’inaugurazione della mostra nella sede del Comune di Mogadiscio. Tra i suoi ricordi di quella giornata spicca quello tinto di tristezza del sindaco della città, Osman Yarisow, con il suo «finalmente gli italiani sono tornati!»: il primo cittadino è morto sette mesi dopo, in un attentato kamikaze provocato da una donna.
Il catalogo – trilingue (italiano, somalo, inglese) – riporta centinaia di immagini, organizzate su 4 «passeggiate virtuali», le prime due seguendo gli itinerari suggeriti dalle guide del Touring Club Italiano del 1929 e del 1938. Tra i documenti storici testuali possiamo evidenziare l’empatica descrizione dell’esploratore Luigi Robecchi Bricchetti nel suo Somalia e Benadir, 1891: «Mogadiscio si presenta in un assieme gaio e civettuolo nel bianco delle case svelte ed angolose […] è chiamata Madischa dagli Arabi, i quali hanno per proverbio: “Mogadiscio, regina delle città, ogni giorno gioiosa e ben vestita, sempre chiacchierona e battagliera”».
Oltre al catalogo – finanziato, come la mostra, dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) – è stata preparata una versione ridotta multimediale della mostra a uso delle scuole, perché scopo di tutta l’operazione è, come afferma il professor Carbonara, «far riappropriare gli abitanti della loro storia urbana». Una storia che certo non è fatta solo di pietra e muri: da questi trapela, come del resto è normale nelle città costiere, «una forte stratificazione di storie e culture». Qui, sottolinea Gabriella Restaino, «gli abitanti interagivano da sempre con i navigatori portoghesi, turchi, indiani o egiziani che attraccavano nei loro porti. Solo in epoca più recente gli europei ne frammentarono il territorio storico».