MOJO, italiano di origini guineane, è una giovane voce della scena trap romana. Ha mosso i primi passi nel calcio professionistico, ma ha capito che non era la sua strada e oggi è cantante e attivista. Salito di recente sul palco di “Iper”, il primo festival diffuso delle periferie, con il collettivo “Touch The Wood”, racconta cosa sono per lui musica e identità.
di Mariarosa Porcelli – NuoveRadici.world
Siamo ufficialmente nell’era degli eventi “phygital“, termine del momento per indicare l’interazione tra dimensione digitale e fisica. Ed è in questa duplice veste che esordisce Iper, il primo festival diffuso delle periferie di Roma (ma non solo) che dal 21 al 23 maggio 2021 ha presentato in streaming gratuito dal teatro di Tor Bella Monaca 400 ore di iniziative multidisciplinari dedicate ai margini delle grandi città. Tra conferenze, installazioni, proiezioni, concerti online e offline è salito sul palco anche MOJO, giovane voce italoguineana della scena trap romana, con il collettivo Touch The Wood.
MOJO ha raccontato a NuoveRadici.world del suo percorso da promessa del calcio nella Roma a modello, cantante e sostenitore dei diritti dei braccianti. Non è sceso in piazza per Black Lives Matter ma crede che sia giusto farlo per i lavoratori che raccolgono i pomodori che mettiamo in tavola ogni giorno.
La multiculturale Roma Nord
Nato a Roma e cresciuto nel quartiere Grottarossa, che definisce tra i più multietnici della Capitale, MOJO ripercorre la strada in salita fatta da sua madre all’arrivo in Italia dalla Guinea: «A Roma è andata a stare da uno zio che le aveva promesso mari e monti e invece le ha fatto fare le pulizie in casa, mettendola nelle condizioni di dover rinunciare agli studi. Allora si è affidata alla comunità guineana che a Roma Nord, tra ambasciate e scuole internazionali, è molto radicata. Mio padre era un diplomatico della Guinea Conakry. Con mia madre si sono conosciuti a una festa, si sono innamorati e nel 1993 sono nato io». Ma la relazione non è durata a lungo e MOJO è stato dato in affidamento a due signore, due sorelle, che lui chiama le zie. È cresciuto con loro, mantenendo contatti con la famiglia di origine, altalenanti con i genitori, dice il cantante con l’amaro in bocca, ma per fortuna buoni con i fratelli avuti dalla madre dopo di lui.
Dalla Primavera della Roma alla musica
Prima di fare sul serio con la musica, gran parte della sua esistenza MOJO l’ha dedicata allo sport. «Ho fatto calcio a livello professionistico, iniziando dalla squadra del quartiere e arrivando prima alla Lazio, poi alla Roma. Ho giocato nella Primavera della Roma per dieci anni. Ora gioco solo con gli amici sotto casa, il mondo del calcio mi ha disgustato per vari motivi. Tra questi c’è che la meritocrazia è un’utopia. Non che in altri settori sia molto diverso, ma prendere in due ore di allenamenti gli stessi soldi che un’altra persona guadagna in cinque mesi non mi faceva sentire bene». Quando ha lasciato il calcio questo malessere ha trovato la sua via catartica nella musica e, mentre lavorava ai suoi progetti musicali, per mantenersi consegnava pizze e faceva il receptionist. «In quel periodo mi sono messo a scrivere tanto su ciò che mi faceva stare male. Per esempio sulla dipendenza dal lavoro, che toglie tempo al resto delle cose più importanti».
Contro il rap mainstream
Anche nella musica la meritocrazia è utopia, algoritmi e social controllano i gusti e inseguono i numeri. «Prendi il rap, per esempio» osserva MOJO, «in Italia è arrivato a essere mainstream quando è diventato un fenomeno di moda, quando si è capito che poteva portare guadagno. Da noi, più che parlare di quello che non funziona nella società, il rapper di turno parla di Rolex. E nelle classifiche ci vai se paghi ma io voglio arrivare perché la mia musica piace, non perché ho pagato per i follower su Instagram». Nel 2020 ha pubblicato l’ep Tripolare, che ha al centro le sue molteplici personalità, legate alle diverse radici e famiglie. Sono canzoni che raccontano storie e sentimenti. «Mi interessa parlare di vita, come in Jasmine, che ha come protagonista una ragazza musulmana lesbica cresciuta in una famiglia estremista, o in Jackie, una ragazza che ha la pelle scura ma legge i romanzi rosa. O come in Vernice, pezzo che sta per uscire con un video-documentario a cui ha lavorato con Isabella Torre e Jonas Carpignano, un regista italoamericano premiato nel 2018 con il David di Donatello per il film A Ciambra, sulla comunità rom di Gioia Tauro».
Musica e identità
Parlando di rappresentazione identitaria, MOJO ha idee precise su come funziona in Italia rispetto ad altri Paesi europei come Francia e Inghilterra dove, a partire dalla musica, la cultura rap ha altre basi e si intreccia da sempre alla questione della ghettizzazione. «In Italia è un’altra storia. Io non sono sceso in piazza per Black Lives Matter ma credo che si debba farlo per i braccianti che lavorano nei campi. Mi sento preso in giro quando la gente va a manifestare per gli afroamericani usando slogan che non ci appartengono». È scettico sul politically correct a tutti i costi, sulla cancel culture e sulla rivoluzione delle definizioni in atto negli ultimi tempi. «I ragazzi degli anni Duemila neanche ci pensano a queste cose, siamo noi a farci problemi con le parole, ma a me interessano di più i contenuti. Certo, è innegabile l’ignoranza diffusa in giro quando le persone ti insultano per il colore della pelle, lo so bene, ed è un tema che affronto nelle mie canzoni. Come in Vernice, in cui la protagonista dice: Io pensavo fosse vernice ma il sapone non faceva niente».
(Mariarosa Porcelli – NuoveRadici.world)