Alla ormai famosa mostra sulla Divina Commedia rivisitata dagli artisti africani contemporanei (curata da Simon Njami e “cominciata” all’Mmk di Francoforte nel 2014), una delle opere più originali e suggestive era stata il Refrigerium di Dimitri Fagbohoun, un’installazione ispirata alla relazione tra religione, aldilà e incognite esistenziali e che comprendeva, tra le varie cose, un confessionale di legno, oggetti in ceramica, carta elettroluminescente e un video sonoro. Per il pubblico italiano c’è adesso la possibilità di scoprire da vicino altri lavori di questo artista russo-beninese che, prima di riconoscere la propria vocazione, ha fatto l’imprenditore e mille mestieri.
Fagbohoun, insieme con altri tre creativi africani molto concettuali e poco etnici – Bronwyn Katz (Sudafrica), Marcia Kure (Nigeria) e Maurice Mbikayi (Rd Congo) – è stato selezionato dalla curatrice Silvia Cirelli per We call it Africa, collettiva esposta alle Officine dell’Immagine di Milano. Cirelli li ha scelti per la loro diversità e, allo stesso tempo, per la persistenza nei loro lavori di un filo comune, in grado di definire un’altra Africa dell’arte, restia alle classificazioni geografiche e intrinsecamente diversa da quella pop e naïf visibile nelle principali collezioni – la Pigozzi a Ginevra, per esempio – che si sono imposte nella rappresentazione occidentale dell’arte contemporanea africana negli ultimi vent’anni. We call it Africa rappresenta un tentativo di esplorare le varie e diverse “Afriche”, gli innumerevoli universi culturali ed estetici che si aprono sul e dal continente, evidenziando il nesso fra arte e società contemporanea. Fino al 2 aprile.
(Stefania Ragusa)