È stato il senso di frustrazione e di marginalizzazione a far sollevare i giovani della provincia di Cabo Delgado in Mozambico. Sensazioni che, unite alla predicazione di imam radicali, hanno creato una miscela esplosiva che sta infiammando da quattro anni la provincia più settentrionale del Paese lusofono e ha causato più di duemila vittime e 670.000 sfollati.
È questa l’analisi di Emilia Columbo, ricercatrice del Center for Strategic & International Studies (Csis), think tank di Washington (Usa), esperta delle dinamiche politiche dell’Africa australe. “Gli investimenti nei giacimenti off-shore del nord del Mozambico – spiega la ricercatrice sentita da InfoAfrica – hanno creato enormi aspettative da parte delle popolazioni locali. Speravano che, finalmente, la loro vita misera potesse cambiare, ma non è stato così”. Gran parte dei proventi dell’industria petrolifera e mineraria sono volati verso sud e hanno arricchito le élite di Maputo invece che trasformarsi in stanziamenti per costruire infrastrutture e creare occupazione e ricchezza nel Nord. “La miseria è stata la vera spinta di questo movimento – continua Emilia Columbo -. Il detonatore che ha fatto esplodere la bomba è stato l’integralismo islamico predicato da imam venuti da fuori o da mozambicani che sono rientrati in patria dopo essersi radicalizzati all’estero. In Shabab, così si chiama il movimento, ai locali si sono aggiunti altri giovani provenienti dall’estero: tanzaniani, burundesi, ugandesi, ecc”. Il loro integralismo ha fatto presa su una società che aveva sempre professato un islam sufi, dialogante, aperto al confronto con altre fedi e altre culture. “Shabab ha iniziato a indottrinare anche donne e perfino minori – continua Emilia Columbo – che hanno creato una rete di informatori che è diventata una sorta di struttura di intelligence per i ribelli. Lo Stato islamico ha approvato l’affiliazione della formazione. Non ci sono però evidenze che, oltre agli appelli propagandistici, abbia fornito un aiuto materiale ai miliziani”.
Maputo ha inizialmente sottovalutato questo fenomeno, derubricandolo a criminalità comune. “Per il governo – continua l’analista -, questo movimento era trascurabile. Operava in un luogo remoto, lontano dalla capitale e riguardava piccole città e popolazioni poverissime. Ma si sbagliavano”. La forza sempre maggiore dei miliziani ha convinto il governo a inviare rinforzi militari al Nord. Di solito militari del Sud, che non parlavano neppure le lingue locali e quindi visti come stranieri. L’intervento dei mercenari russi e sudafricani a fianco delle truppe mozambicane non è servito molto. Fornivano supporto aereo con gli elicotteri senza però offrire un contributo effettivo sul territorio. “Le cose sono cambiate con l’arrivo di militari ruandesi – conclude Emilia Columbo -. Hanno fornito un supporto nella formazione dei mozambicani e hanno combattuto sul terreno. Insieme alle truppe della Sadc, l’organizzazione degli Stati dell’Africa australe, sono riuscite a cacciare i ribelli dalla costa e dalle principali città. I miliziani jihadisti si sono dispersi, ma non sono stati sconfitti”.
(Enrico Casale)