In Mozambico le multinazionali dell’agrobusiness, sostenute da governi stranieri, puntano ad accaparrarsi regioni fertili da destinare alla produzione di biocarburanti. Il governo di Maputo destina 15 milioni di ettari produttivi alle aziende straniere, sottraendole ai contadini. E nella corsa al land grabbing il Giappone è in prima fila
di Ilaria De Bonis
La fame industriale di biocarburanti in Mozambico è ancora molto vorace. In prima fila c’è la soia, ma anche la Jatropha curcas da olio vegetale. Non mancano eucalipti, canna da zucchero e girasoli. Il portale di Land Matrix, incrocio di milioni di dati sul land grabbing mondiale, calcola che in Mozambico siano ancora attivi 109 “accordi” di spartizione di terreni con multinazionali o governi stranieri. Le distese infinite di savana (la superficie arabile supera i 36 milioni di ettari), coltivata dai contadini locali a manioca, mais, riso e anacardio, sono un boccone ghiotto per l’agrobusiness internazionale, specialmente quello giapponese. Il Mozambico è al 6° posto tra i dieci Paesi che hanno ceduto più terre in assoluto: 2,6 milioni di ettari, dopo i 6,4 milioni della Repubblica democratica del Congo.
Rischio vero
Nel 2009 il governo di Maputo sottoscrisse il progetto ProSavana, che prevedeva la cessione di 102.000 chilometri quadrati di terra arabile al Consórcio ProSavana, costituito da imprese mozambicane, giapponesi e brasiliane. Il progetto riguardava le province di Nampula, Niassa e Zambesia, abitate da 13 milioni di persone. L’obiettivo era di trasformare la piccola agricoltura familiare in grandi appezzamenti intensivi come per le fazendas brasiliane. Come la notizia divenne pubblica, iniziarono le proteste. Scesero in piazza comunità rurali, sindacati, parrocchie, associazioni della società civile. L’eco della contestazione si propagò anche oltre confine, costringendo le autorità mozambicane a un passo indietro. Il progetto sembrò essere stato accantonato.
In realtà le azioni di accaparramento proseguivano, sotto traccia. «Chi pensava che la minaccia ProSavana fosse archiviata si illudeva – spiega Boaventura Monjane, giornalista mozambicano –. Il land grabbing è dappertutto in Mozambico e il governo giapponese, con la sua fame di terre per il settore agroalimentare, è più determinato che mai». Il rischio di sottrazione della terra ai piccoli contadini è ancora fortissimo, assicurano gli attivisti, «specie nel corridoio di Nacala, dove gli investimenti sui biocarburanti, in special modo la soia, aspettano solo di essere nuovamente attivati». In palio ci sarebbero 15 milioni di ettari di terra, da sottrarre a tre milioni di persone, in larga parte piccoli produttori locali, in ben 19 distretti.
Nuova strategia
«A partire dal 2015, quando la società civile si è fatta sentire e la pressione internazionale progetto si è intensificata, il governo giapponese e quello di Maputo hanno serrato le fila e adottato un sistema differente», ci spiega l’attivista giapponese Karina Kato. Hanno cioè iniziato a dividere il movimento della società civile organizzata, alimentando la narrativa “complottista” che legherebbe la resistenza al ProSavana agli interessi stranieri. I governi e le agenzie di cooperazione hanno poi introdotto una versione annacquata del progetto, per tentare di smorzare le polemiche e rassicurare i contadini locali.
Sulla carta, il progetto prevede sostegno tecnico e logistico ai piccoli agricoltori nelle aree rurali più remote. In concreto, nelle province di Nampula, Zambesia e Niassa, nel Centro-nord del Paese, il governo di Maputo assieme ai suoi finanziatori sta “conquistando” pezzetto dopo pezzetto la fiducia delle famiglie, delle donne e dei piccoli agricoltori locali. Le sementi donate ai contadini sono improved, migliorate, il che fa pensare che siano in qualche modo “modificate”. Inoltre sono stati stanziati 231 milioni di dollari per realizzare un modello agricolo semi-industriale, alternativo all’agricoltura tradizionale. In apparenza, insomma, si tratta di investimenti per promuovere lo sviluppo.
I custodi della terra
«È solo un inganno – sostiene Kato –. I governi di Giappone e Mozambico stanno ancora cercando di far avanzare il ProSavana: nonostante le resistenze, dal 2012 a oggi sono stati realizzati dei progetti pilota coi coltivatori locali. È una strategia per dividere le persone. E per proporre uno scambio: posti di lavoro contro terreni».
Particolarmente attiva è la Jica (la Cooperazione allo sviluppo nipponica), che ha stanziato finanziamenti con l’obiettivo di creare grandi imprese agricole sul modello del Cerrado brasiliano. Le aziende coinvolte, come Mozaco, Agromoz, Matharia e Green Resources, sostengono che le terre in questione sono scarsamente abitate e non coltivate, ma Sayaka Funada Classen, giapponese, docente universitario a Tokyo, è di parere opposto: «La provincia di Niassa, principale obiettivo del progetto ProSavana, è anche tra le più fertili e coltivate. Nelle machambas le famiglie fanno crescere pomodori, fagioli, manioca… Le multinazionali dell’agrobusiness minacciano di annientare il sistema di coltivazione tradizionale, realizzato in piccoli appezzamenti a conduzione familiare, che sono l’unico vero baluardo per la difesa dell’ambiente».
Saccheggio impunito
In questa regione la terra è uno spettacolo: gli alberi di nocciole e le palme da cocco sono un tutt’uno con i campi di pomodori, arachidi e canna da zucchero. Non è facile coltivare queste zolle dure e rosse: ma ogni famiglia lo fa nel suo piccolo con enorme fatica. Le comunità possiedono la terra in virtù del diritto consuetudinario. «In base alla Costituzione, lo Stato è proprietario unico di tutta la terra arabile – spiega il giurista Assane Tipito –, ma questa proprietà è stata trasferita al popolo. Le comunità locali hanno dei diritti inalienabili sulle aree che controllano. È un grande potere! Ma non tutte sanno di averlo o non tutte lo fanno valere».
Chiarisce Anna Maria Gentili, professoressa di storia e istituzione dell’Africa subsahariana all’università di Bologna: «In Mozambico la legge sulla terra adottata tenendo conto delle consultazioni con le comunità contadine – considerata per questo esemplare – è spesso applicata in modo tale che, nelle regioni appetibili per produzioni agricole d’esportazione, le popolazioni residenti non possano negoziare gli accordi di allocazione delle terre per ottenere migliori condizioni salariali e l’impegno a costruire infrastrutture, strade, scuole, posti di salute – servizi essenziali sempre promessi ma quasi mai realizzati».
Da sempre la proprietà si tramanda di padre in figlio: per i contadini perdere la terra è come perdere a poco a poco la propria identità. Il fronte che si oppone al land grabbing (costituito da associazioni, comunità rurali, sindacati, gruppi informali, parrocchie e missionari come la comboniana Rita Zaninelli) appare indebolito e frammentato, ma i suoi leader più carismatici continuano a tenere alta la guardia e chiedono un appoggio internazionale. «Non lasciateci soli in questa battaglia. Nell’indifferenza generale, le multinazionali dell’agrobusiness stanno allungando i loro tentacoli sui fertili terreni del Mozambico», tuona, combattiva, suor Rita. «Hanno già cominciato a produrre soia, ma anche girasoli, bambù, eucalipti e jatropha. La terra non la pagano, la occupano». A farne le spese, come sempre, i piccoli contadini.
(Testo di Ilaria De Bonis – foto di Robin Hammond)
(Questo articolo è stata pubblicato sul numero 3/2020 della Rivista Africa. Per acquistarne una copia, clicca qui). Se desideri abbonarti alla rivista clicca qui