«L’inferno libico». Un’espressione molto abusata per raccontare con un’immagine cosa vive, lungo la sponda sud del Mediterraneo, chi cerca di raggiungere l’Europa. Quell’inferno, benché derubricato dagli organi di informazione a vicenda di secondo piano nei giorni del coronavirus, è rimasto tale, come ci spiega Mussie Zerai, sacerdote eritreo trapiantato in Italia, da anni impegnato a sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma dei migranti. Oggi, con un post su Facebook, Zerai ha dato voce proprio a chi è ancora intrappolato in Libia.
«Stanotte, poco dopo le quattro, ho ricevuto una chiamata dal centro di detenzione a Zawiya, dove sono trattenuti da più di un anno circa 200 persone».
Eravamo più di ottocento quando l’UNHCR ci ha trasferiti da Bin Qashir, centro orribile dove molti hanno perso la vita. Tanti sono partiti, alcuni sono stati trasferiti prima che iniziasse la pandemia e che il conflitto diventasse ancora più pesante. Siamo rimasti in duecento, eritrei ed etiopi, di cui dieci donne e sei bambini. Alcune di queste donne sono in gravidanza. Abbiamo persone malate seriamente che nessuno cura, subiamo ogni giorno vessazioni, cibo e acqua scarseggiano. Nessuna forma di prevenzione dalla pandemia in corso, al contrario il capo milizie che spadroneggia sulle nostre vite, un certo Osama, con la complicità del gestore del centro di detenzione, un certo Mohammed, vorrebbe costringerci a chiuderci in spazio ristretto dove è impossibile mantenere una minima distanza. Non è nemmeno pensabile curare l’igiene personale e ovviamente non ci sono mascherine né disinfettanti. Il personale delle agenzie internazionali non si vede da settimane. Le milizie ci minacciano di sequestrare i cellulari per isolarci totalmente, così non possiamo denunciare gli abusi che subiamo ogni giorno.
La testimonianza raccolta da Mussie Zerai prosegue così.
C’è un andirivieni di gruppi di africani che vengono rinchiusi per un breve periodo e poi lasciati partire dopo pagamento o compravendita tra i vari trafficanti. Stanotte le milizie hanno tentato di usare la forza delle armi ma, vista la compattezza del gruppo che ha resistito al tentativo, il capo ha minacciato di tornare con più uomini armati e di fare un bagno di sangue. Queste persone sono state consegnate quindi nelle mani del signor Mohammed, gestore di questo centro a Zawya, ritenuto meno pericoloso rispetto a quello di Bin Qashir.
Mussie Zerai ha quindi fatto un appello: «Chiedo che l’UNHCR e le istituzioni libiche intervengano, liberino gli ospiti di questo centro da questa orribile condizione e li mettano al sicuro, lontani da personaggi che fanno il doppio gioco come il signor Osama e il signor Mohammed. Non è ben chiaro, stando alle testimonianze dei profughi, se il centro riceve sussidi per ospitare profughi, ma è certamente usato per traffici che trasformano gli uomini in merce. Vi supplichiamo perché si intervenga immediatamente, prima che le milizie tornino a minacciare ed usare la forza contro i profughi trattenuti nella struttura di Zawiya».
Chi vuole sostenere l’associazione del sacerdote eritreo può trovare qui informazioni.