Viaggio alla scoperta di un popolo fiero e ospitale
a cura di Alberto Salza – foto di Eric Lafforgue
Gli Himba della Namibia sono un gruppo di “villan rifatti”, contadini che traggono prestigio dall’essere diventati pastori di vacche. Me ne accorsi analizzando l’uso del bastone fatto dai bambini. Il bastone è simbolo pastorale per eccellenza: anche il papa ne ha uno. I bambini himba, senza un bastone si sentono nudi. Le bambine pascolano il bestiame come i maschi, ma questi adoperano il bastone in modo differente: nel colpire gli animali (vacche, cani e tutto quel che si muove) o nel legnare i coetanei con cui litigano (succede). I maschietti himba, con un bastone in mano, si preparano a difendere gregge e territorio, mandrie e pascoli, in un gioco che deriva dalla storia di un popolo al contempo invasore e perseguitato.
Origini contadine
L’ambiguità tra un’origine bantu, agricola e sedentaria, e uno sviluppo culturale da pastore nilotico si scopre, tra gli Himba, nel sovrapporsi di strutture che privilegiano la donna e altre che danno il potere all’uomo.
Per gli Himba l’universo è mucca e il capofamiglia è maschio. Il bestiame viene ereditato per via materna, ma la proprietà è maschile. Al capofamiglia resta il possesso dei buoi, simbolo di potere, e il controllo del fuoco sacro, che lo mette in relazione con gli antenati. Il culto degli antenati, tra gli Himba, è un altro elemento di origine agricola, tipico delle popolazioni che abitavano la foresta pluviale prima della grande migrazione verso le savane. Nel Kaokoveld, la commistione dà luogo a strane manifestazioni, quali il funerale itinerante, in cui si porta in giro il morto di corsa, affinché scelga egli stesso il luogo di sepoltura, poi marcato con pile di crani bovini: corna in giù per marcare una tomba femminile, all’insù per i maschi.
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Maniaci delle acconciature
Gli Himba sono ossessionati dalla bellezza del corpo e, in particolare, della testa. Se il corpo è totalmente spalmato di burro rancido e ocra, se i vestiti sono morbide pelli plissettate che ondeggiano al passo, se braccia e gambe sono ornate di monili in spirali e perline di ferro, è nei cappelli che si vede il vero Himba.
La pettinatura con treccine è tipica delle ragazzine, mentre i maschietti si rasano lasciando un codino. Ancora trecce, ma più incolte e disordinate, segnalano la ragazza in età preadolescenziale: il caos tra i capelli simboleggia l’incertezza di chi sta per diventare donna. Quando è pronta per sposarsi, la ragazza porta i capelli legati all’indietro con la fronte rasata. A quel punto riceve l’acconciatura-copricapo ekori (una sorta di tricorno in pelle). Dopo un anno di matrimonio sostituisce l’ekori con l’erembe, un pezzo di pelle ricavato dalla testa di una capra fissato sotto i capelli, sulla nuca.
Per i maschi, l’attenzione e la cura sono più o meno simili, anche se variano le fogge. Un uomo adulto ha due treccine raccolte sotto un semplice berretto di pelle, ma un anziano importante viene cotonato, con i capelli raccolti e riempiti di segatura, in modo da ottenere una forma tipica a doppio corno. Il tutto viene poi raccolto nel berretto di pelle (ombiya). L’operazione può richiedere un’intera giornata.
Case-fattorie
L’unità abitativa degli Himba è circolare. Circondata da una fitta siepe di rami spinosi, certifica la convivenza tra uomo, animali e antenati, considerati una singola unità famigliare. Al centro c’è il bestiame, la sopravvivenza del pastore. Tutt’attorno sono disposte le capanne a forma di pan di zucchero, con un’intelaiatura in legno d’acacia ricoperta da un impasto di fango e sterco di vacca, a costituire una superficie resistente a sole e pioggia. La recinzione esterna, dal diametro di una sessantina di metri, è aperta da tre lati, con ingressi protetti da “porte” di spine. Nel settore delimitato dagli ingressi in direzione nord-sud, si trovano il fuoco sacro (in teoria sempre acceso), la casa del capofamiglia e quella di sua madre. Il terzo ingresso conduce al recinto dei buoi sacri, dove dormono i figli adulti. In tutto, la struttura ospita una trentina di persone.
La convivenza con il bestiame ha i suoi rischi. Ho seguito la mungitura a opera delle donne; per tutto il tempo eravamo avvolti da una polvere micidiale fatta di terra smossa dagli zoccoli di duecento bovini e trecento fra capre e pecore (il minimo per la famiglia allargata himba), cui si mescola un trito fine di sterco bovino ed erba secca. La miscela entra nei polmoni, li ulcera e può provocare gravi malattie respiratorie.
Sfuggiti al massacro
Gli Himba continuano a sopravvivere grazie all’isolamento. Pur essendo un sottogruppo degli Herero, sfuggirono al genocidio organizzato dai colonialisti tedeschi in quella che era allora l’Africa del Sudovest, il cui primo amministratore fu il padre del gerarca nazista Hermann Göring. Tra il 1904 e il 1907, centomila Herero e un numero imprecisato di Nama (Ottentotti) vennero eliminati secondo piani e ordini precostituiti. La modalità tecnica fu lo sterminio programmato di uomini, donne e bambini, soprattutto tramite marce della fame e della morte nel deserto del Kalahari, dove si rinvengono ancora le ossa. Sull’Isola degli Squali, a Lüderitz, venne allestito il primo vero «campo di morte» della Storia, con l’eliminazione del 70 per cento degli internati. Da quelle parti avreste potuto incontrare Franz von Epp, allora semplice tenente della guarnigione. In seguito divenne una sorta di mentore per Hitler.
La sperimentazione sugli Herero venne poi applicata dalla Turchia contro gli Armeni e dai nazisti contro gli Ebrei. La Shoah non fu una discontinuità nella storia mondiale; a ricordarcelo è un piccolo gruppo di Herero isolati, quelli che i loro stessi vicini chiamavano “accattoni”. Già, questo significa la parola himba. Oggi gli Himba sono un’attrazione turistica: destinati a far parte di quell’ethnoshow diffuso che appare l’unico futuro per popolazioni che resistano all’omologazione culturale nel villaggio globale. Per gli Himba si stanno aprendo le porte (e chiudendo le sbarre) dello zoo umano, meta di voyeuristi estremi che, se le donne himba indossassero un vestitino a fiori, manco le vedrebbero. Anche questo è genocidio.
Articolo apparso sul numero 1-2016 di Africa (gennaio-febbraio 2016)