Il 15 agosto il presidente della repubblica Cyril Ramaphosa ha annunciato la sospensione di alcune delle misure più drastiche e caratteristiche del lockdown in Sudafrica, come il divieto di vendita di alcolici e di sigarette, consentendo la riapertura di molti ristoranti e locali d’intrattenimento. Rimangono in vigore il coprifuoco, il divieto di raduni di più di 50 persone e l’obbligo di indossare una mascherina in pubblico. Nonostante la curva dei contagi si stia finalmente appiattendo, nel Paese è stata superata la soglia delle 600mila persone contagiate dal covid-19. Questi numeri provocano un brivido freddo nonostante rivelino poco delle conseguenze socio-economiche di questa crisi sanitaria che da cinque mesi sta funestando la vite di milioni di persone. Molti temono più di morire di fame che a causa del virus e sono scesi in piazza, nelle scorse settimane, perché non hanno letteralmente più nulla da mangiare (e da perdere). Reclamano soprattutto il diritto al lavoro e un luogo sicuro da poter chiamare casa: in Sudafrica una famiglia su sette vive in insediamenti informali, in gran parte baraccopoli, e circa due terzi di queste usano servizi igienici condivisi. Un semplice gesto come lavarsi le mani diventa un’impresa molto difficile, per dirla con un eufemismo.
Rete di solidarietà
Dall’inizio del lockdown, consapevole delle grande sfida che si delineava all’orizzonte, Cape Town si è resa protagonista di una rapida e spontanea mobilitazione, guidata da attivisti, leader comunitari, lavoratori del settore della sanità e dell’educazione. L’idea era (e rimane) semplice: produrre una risposta dal basso, comunitaria, condivisa e solidale ai problemi che la città, tutta, si trova ad affrontare. Cape Town Together Network è nata come una rete di cittadini, organizzati localmente per quartieri gemellati tra di loro, in maniera non gerarchica, e senza nessuna “costituzione” che ne circoscriva la creatività. Conta oggi più di 170 gruppi (Community Action Networks – CAN) e almeno 15000 membri attivi.
In prima linea
Thane Barnardo, produttore cinematografico, si è trovato improvvisamente a corto di clienti a causa della pandemia e, suo malgrado, con molto tempo a disposizione. Ha aderito ai CAN dopo aver ricevuto un’email e mi confessa che questa è l’esperienza più positiva e una delle più entusiasmanti mai vissute, nonostante le circostanze. «Non sono un attivista, sono uno a cui piace fare. Ho sempre avuto paura di essere coinvolto emotivamente dalle situazioni di disagio ma adesso che sono in prima linea mi rendo conto che non sarei più in grado di rinunciare alle relazioni di solidarietà che ho costruito. L’esperienza dei CAN cambierà forma ma non sostanza perché persone insospettabili si stanno scoprendo membri attivi della società e vogliono contribuire, concretamente, a cambiare il mondo che le circonda».
Una città divisa
Cape Town è la città delle tante isole. Qui la pianificazione territoriale dell’apartheid (e non solo) ha separato con grande efficacia i ricchi dai poveri, i bianchi dai neri, i neri dai coloured, intensificando le divisioni sociali, culturali ed economiche. All’uscita di Nyanga, una delle township periferiche sulla strada per l’aeroporto, il segnale per andare verso il centro a solo 15 minuti non dice city centre come ci si aspetterebbe, ma Cape Town, come se ci si trovasse in un dove satellite che non appartiene alla città. In questa realtà frammentata e divisa, i CAN sono riusciti a unire, gemellandoli, gli abitanti dei vari quartieri che, attraverso messaggi Whatsapp e chiamate su Zoom, hanno organizzato raccolte alimentari per le cantine sociali e gli orfanotrofi, firmato petizioni per i senza fissa dimora, creato gruppi di supporto per le donne vittime di violenza (una piaga atroce in Sudafrica, sfuggita a qualsiasi controllo durante il lockdown) e molto altro. Sono nate relazioni personali di conoscenza e solidarietà, strette attraverso rapporti orizzontali e assolutamente spontanei. Lo scopo è sempre stato quello di creare spazi di riflessione e azione collettiva in contrasto con l’operare individuale ed isolato all’interno delle comunità.
Il ritorno dell’Ubuntu
Mentre in questi giorni l’opinione pubblica si indigna per l’accaparramento corrotto, da parte di uomini d’affari politicamente connessi, di risorse pubbliche destinate all’emergenza, la società civile continua ad operare. Nokubonga Mepeni e Wendy Norrie Konco fanno parte di una organizzazione non-governativa, Ubuntubethu, e del CAN della township di Samora Machel. Sono sempre state delle attiviste ma la collaborazione tra i CAN ha infuso nuova linfa a ciò che fanno e stimolato la creazione di legami con organizzazioni al di fuori delle loro comunità. Grazie ai CAN, oggi esistono 10 gruppi che coinvolgono 120 donne che possono scambiarsi messaggi Whatsapp per condividere i loro bisogni e quelli delle loro famiglie, parlare di violenza di genere all’interno delle loro comunità e, se necessario, chiedere aiuto in situazioni di emergenza. Una risposta collettiva a problemi, quelli all’interno delle mura domestiche, erroneamente considerati e tenuti privati. Non ci sono affiliazioni politiche nei CAN, un terreno molto sdrucciolevole in Sudafrica: è l’idea di ubuntu (l’indissolubile connessione e interdipendenza fra tutti noi, espressa in lingua Xhosa) che dirige e ispira questa variopinta orchestra di attivisti, vecchi e nuovi. Cresce la consapevolezza, però, che livellare l’incredibile disuguaglianza esistente nel Paese, anche soltanto attraverso la distribuzione di una pagnotta di pane, è indubbiamente un atto politico.
(testo Giorgia Nicolò – foto di Thane Barnardo)