Nella valle del Rift, i giovani podisti scommettono sul loro futuro

di claudia

di Marco Trovato

Una terra dalla bellezza unica, fatta di altopiani e montagne attorno alla Rift Valley, tra Etiopia e Kenya, campeggia da decenni nelle liste dei record legate all’atletica e sono garanzia di meraviglie sportive. Perché proprio qui? Misteri africani. Certo, allenarsi tutti i giorni a quasi tremila metri di altezza porta a incamerare più ossigeno. Ma se fosse solo questo, altri popoli di montagna dominerebbero le gare. Corpi perfetti per la corsa? Ipotesi. Quel che è certo, è che la voglia di riscatto e la possibilità di una vita migliore è un combustibile formidabile per infiammare le gambe di questi corridori. Il coach dei fuoriclasse keniani Colm O’Connell, 62 anni, prete cattolico irlandese, è una leggenda vivente dell’atletica mondiale. Dalle sue mani sono passati migliaia di ragazzi pieni di grinta e talento. E non pochi sono entrati nell’olimpo della corsa.

Padre Colm ha una missione speciale: far correre i giovani del Kenya verso una vita migliore. Quando arrivò nel villaggio di Iten, nel 1976, trovò un grumo di casupole sospeso a 2.400 metri di altitudine su un’impervia scarpata della Rift Valley. C’erano solo pascoli, campi di mais e frumento, qualche povera bottega. E una sperduta scuola maschile fondata dai missionari: la Saint Patrick’s High School. Colm avrebbe dovuto insegnare geografia ma si ritrovò ad allenare gli allievi per una competizione di corsa campestre, e da lì in poi le cose cambiarono il loro corso.

Il prete irlandese innescò una valanga irrefrenabile di trionfi clamorosi. Trofei internazionali, vittorie di maratone prestigiose, podi olimpici, record mondiali: una lunga storia di successi che oggi può essere ripercorsa visitando il Wall of Fame della scuola di Iten, una grande parete tappezzata di foto, attestati, ritagli di giornale.

Gli scienziati occidentali hanno ipotizzato una predisposizione genetica alla base della primazia keniana: i corpi dei Kalenjin e dei Kikuyu, i maggiori gruppi etnici della regione, sarebbero perfette macchine da corsa. «I ricercatori hanno misurato polpacci e femori, confrontato valori del sangue, analizzato il dna dei campioni, ma non hanno trovato le risposte che cercavano», racconta padre Colm. «La verità è che non esiste alcun segreto: le vittorie sono il risultato
di anni di allenamento, sacrifici, dedizione assoluta alla corsa. L’atletica è anche, e soprattutto, un mezzo per cercare di cambiar vita». Una vittoria prestigiosa può far guadagnare decine di migliaia di dollari, sponsor, ingaggi. Ai ragazzi come alle ragazze, per le quali, nel 1989, Colm organizzò il primo campus, «una picconata contro i pregiudizi della società maschilista». «Ai miei ragazzi però – avverte Colm – ripeto ogni giorno di rimanere sempre coi piedi per terra. Serve umiltà, disciplina, sete di nuovi traguardi. La corsa è una formidabile palestra di vita». Ma non c’è solo il Kenya.

Etiopia, il Paradiso della corsa
Un piccolo esercito di podisti si dirige verso la regione montagnosa dell’Arsi, le cui cime rocciose si estendono a sud-ovest di Addis Abeba fino a precipitare nelle scarpate della Rift Valley. Anche questa è una terra prodigiosa. Qui sono nati alcuni dei più grandi maratoneti di tutti i tempi. L’illustre Haile Gebrselassie, un mito vivente dello sport mondiale, è originario di Asela. I suoi compaesani se lo ricordano ancora quando era un bambino timido, piccolo, magro come un chiodo, e percorreva di corsa ogni giorno i dieci chilometri dal suo tucul alla scuola. Poi Haile è diventato ragazzo e non ha più fermato la sua corsa. Sulla distanza dei 10.000 metri ha vinto due ori olimpici (Atlanta 1996 e Sydney 2000) e quattro ori mondiali. Nel 2007 a Berlino ha battuto il record del mondo della maratona. Irraggiungibile. Haile continua a vivere ad Addis Abeba, è un affermato uomo d’affari con un forte impegno sociale. «Lo sport può migliorare il futuro del mio popolo». La grande corsa verso nuovi primati entusiasma l’intera nazione e il testimone è stato raccolto da altri etiopi che sono saliti sul gradino più alto del podio olimpico. Star assolute come Kenenisa Bekele, Derartu
Tulu, Meseret Defar, le sorelle Dibaba. Ma la memoria torna al primo straordinario trionfo mondiale di un etiope.

Abebe Bikila, 1960

Era il 1960 e Roma ospitava i Giochi. La sera del 10 settembre, un atleta di colore, sconosciuto al grande pubblico e ai giornalisti sportivi, corse a piedi scalzi sul selciato dell’Appia Antica e tagliò davanti a tutti il traguardo della maratona, primo africano a vincere un’olimpiade, stabilendo un nuovo incredibile record. Il suo nome, Abebe Bikila, è entrato nella storia. Quattro anni dopo, a Tokyo, vinse per la seconda volta la maratona olimpica e la fama degli etiopi raggiunse tutti gli angoli del globo. Difficile spiegarsi tanti successi. Condizioni fisiche e ambientali ideali e la leva del miglioramento sociale giocano un ruolo fondamentale. E c’è anche chi parla di una sorta di “marchio di fabbrica” locale, inimitabile, legato indissolubilmente alla voglia di correre.

La passione per l’atletica della gente dell’Arsi è incontenibile. Percorriamo piano la strada asfaltata che punta a nord, con
l’autista che impreca per la marea di podisti che invade la carreggiata. «Al diavolo! Vadano altrove a correre», dice mentre scuote la testa. «Vanno a scuola, al mercato, al lavoro. Ma non credere che siano tutti in ritardo! Corrono perché sono abituati così da sempre. Non si chiedono il perché, non se ne accorgono neppure di correre».

Questo articolo è uscito sul numero di ottobre del mensile Africa e Affari.

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