Niger: da Rouch ad Alassane, la nuova vita del centro culturale franco-nigerino

di claudia

di Céline Camoin

Tornato a una gestione puramente nigero-nigerina a causa della crisi in atto tra Parigi e Niamey e dell’obiettivo sovranista e liberatore dalle reti colonialiste, l’ex Centro culturale franco-nigerino Jean Rouch cambia nome e viene intitolato a Mousapha Alassane, il pioniere del film d’animazione africano, scomparso nel 2015.

Se il nome di Alassane è decisamente da onorare, il cambio nome cancella la traccia di Jean Rouch (1917-2004), famoso documentarista, regista ed etnologo francese, che ha trascorso molti anni in Africa e in particolare in Niger, dove ha formato tutta una generazione di registi, tra cui proprio Mousapha Alassane, di cui era anche amico.

Il media francese Rfi riporta che questo cambio di nome solleva interrogativi a Niamey. “Un cambio di nome che fa discutere”, titola il quotidiano nigerino L’Enquêteur. “La sovranità culturale è essenziale, afferma il giornale, ma non deve cancellare figure che hanno lavorato per promuovere il patrimonio del Niger. Come Jean Rouch, cineasta, etnologo francese che ha viaggiato attraverso l’Africa, innamorato del Niger dove ha lavorato a lungo”.

“Alassane e altri registi nigerini si starannno rivoltando nella tomba”, scrive l’ex sindacalista Issoufou Kado Magagi. Per lui, “il Niger non deve confondere alcuni cittadini francesi che hanno dato molto al Paese con alcuni elementi sbagliati del governo francese”.

Fondato nel 1963, il Centro culturale franco-nigerino Jean Rouch è un luogo di incontro apolitico a vocazione culturale, di promozione dello scambio di idee, delle arti, lettere e scienze. Ente di diritto nigerino, era co-gestito da Francia e Niger sulla base di una convenzione.

Alice Gallois, in un testo intitolato Sguardo di Jean Rouch sulle indipendenze africane, ricorda che Jean Rouch ha girato quasi un centinaio di film nell’Africa occidentale dalla fine degli anni Quaranta. Alcuni dei suoi film etnografici o le sue “docu-fiction” sono noti ai ricercatori e talvolta anche al grande pubblico. Molti, non essendo mai stati trasmessi, restano da scoprire. Presente all’epoca della decolonizzazione sulla scena africanista attraverso il suo lavoro di ricerca scritto o cinematografico, Jean Rouch ha naturalmente preso la macchina fotografica per testimoniare l’attualità.

È in Niger, dove viene assegnato come ingegnere dei Lavori Pubblici negli anni Quaranta, che nasce la sua vocazione per l’etnografia, che sviluppa attraverso il contatto con Marcel Griaule, Germaine Dieterlen e Theodore Monod. Grazie al sostegno del Musée de l’Homme, Jean Rouch entra a far parte del Cnrs (ndr, il Cnr francese) alla fine degli anni Quaranta; dopo aver discusso la sua tesi di dottorato di Stato nel 1952, sotto la direzione di Marcel Griaule, fu reclutato al Cnrs dove continuò il suo lavoro di ricerca sui Songhay del Niger. Alla vigilia dell’indipendenza del Niger, Jean Rouch ha svolto studi sui fenomeni migratori nell’Africa occidentale ed è diventato direttore scientifico del Centro nazionale per la ricerca nelle scienze umane a Niamey. Questa doppia appartenenza gli conferisce un ruolo determinante nella cooperazione tra istituti e programmi di ricerca africani e francesi e rafforza la sua influenza nelle reti di ricerca “africaniste”, scrive Gallois.

L’indagine sulle migrazioni dei saheliani verso la Costa d’Oro (ndr, l’odierno Ghana), condotta a partire dall’inizio degli anni ’50, ha costituito una svolta essenziale nella sua carriera scientifica. Integrando nuove questioni vicine alle tesi difese da Georges Balandier (1955) e modificando l’approccio metodologico alla ricerca nelle scienze umane utilizzando gli strumenti audiovisivi, Jean Rouch partecipa al rinnovamento dell’etnologia francese. Più aperta ad altre discipline, in particolare alla sociologia, l’etnologia affronta la questione delle trasformazioni sociali e culturali e dei problemi contemporanei del continente africano. Le dinamiche sociali e l’ibridazione delle pratiche culturali sono oggi al centro del suo lavoro di ricercatore e regista.

Sul blog della Fondazione Pietro Nenni, lo scrittore e documentarista, critico cinematografico, Maurizio Fantoni Minnella, parla dell’opera di Rouch in questi termini: la sua ricerca sul campo “non si limitò solamente a documentare rituali mai visti da uno spettatore occidentale, quasi sempre incredulo e impreparato ad un livello più profondo di comprensione di immagini di culture verso cui in genere nutriva, e, forse, nutre ancora oggi, nonostante sia trascorso ormai oltre mezzo secolo, una sorta di naturale riluttanza, ma in alcune opere, soprattutto lungometraggi (come Moi un noir, 1958, Cocorico Monsieur Poulet, 1974) adottò il metodo di una narrazione modellata però sulla vita reale, sulla quotidianità delle persone, e interpretata da loro stesse, ottenendo così un effetto di cinéma vérité che influenzò la Nouvelle Vague francese la quale riconobbe certamente in Rouch un precursore.

Jean Rouch

Ma egli lo fu anche per quanto concerne la costruzione dell’immaginario africano attraverso la produzione di un materiale filmico di una vastità impressionante, suddiviso tra cortometraggi, mediometraggi e lungometraggi per un totale di circa 200. (…). La realtà nel suo divenire immediato è la costante espressiva del regista anche quando, nel seminale Moi un noir, girato in 16 mm, calato in un’ambientazione di periferia urbana (ad Abidjan, capitale della Costa d’Avorio), sembra prevalere una sorta di autonarrazione, attraverso cui i personaggi, sette giovani immigrati nigeriani che hanno soprannomi che corrispondono a quelli di attori famosi, rivivono la propria condizione umana. Rouch, inoltre, elaborò nel doppiaggio il sonoro registrato, musica più parlato, (la pellicola in 16mm non permetteva ancora la registrazione diretta di suono e immagini!), aggiungendovi commenti e riflessioni degli stessi personaggi sulle loro vite reali, ottenendo un ulteriore senso di straniamento”.

Moustapha Alassane ha avuto un vasto bagaglio da sceneggiatore, regista, contastorie, tecnico, distributore cinematografico e creatore di software di animazione educativa. Dopo aver studiato meccanica, è stato assunto come illustratore al Museo Nazionale di Niamey. Qui incontra Claude Jutra, un regista del Quebec che lo nota per le sue qualità di illustratore. Unendosi al circolo di lavoro, Jutra è lì che incontra Jean Rouch di cui diventa anche l’assistente. Tuttofare, imparando le tecniche sul campo, nel 1962 produce le sue prime due fiction ispirate ai racconti tradizionali di Djerma: Aouré e L’anello di re Koda. Nel 1965, grazie al sostegno di Jutra, completa uno stage presso il National Cinema Board of Canada con Norman MacClaren, maestro indiscusso del cinema d’animazione. Dirige La morte di Gandji, il primo film d’animazione del regista.

Vincolato finanziariamente dalle politiche di bilancio del Niger, Moustapha Alassane investe principalmente nella creazione di film d’animazione. Padroneggiando l’arte dei burattini, nel 1977 fa uscire Samba Le Grand, il primo film d’animazione nigeriano a colori. Accompagnato dall’approccio narrativo di Jean Rouch, il film è una metafora degli impegni politici non mantenuti dai leader occidentali, che cullano alcune comunità africane con speranza e disillusione. Nel corso della sua carriera, dal 1962 al 2003, Moustapha Alassane ha diretto 28 film legati ai generi della finzione, dell’animazione e del documentario.

Per me il cinema può e deve servire a cambiare la mentalità delle masse. Ciascuno dei miei film tocca la politica, se non altro perché suscita interesse tra le masse ed è probabile che le renda consapevoli della propria cultura. Penso che, per il momento, il cinema non abbia sufficientemente dimostrato al mondo che l’Africa ha una propria cultura. Deve essere in grado di aumentare la consapevolezza dello spettatore sui problemi specificamente africani e guidare l’Africa in una direzione più praticabile”, diceva Moustapha Alassane, che ha trascorso i suoi ultimi momenti di vita.

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