Si assiste a un significativo cambiamento nella strategia dei gruppi armati, che dopo una serie di attacchi rivolti principalmente alle forze di difesa e di sicurezza, sembrano aver deciso ora di rivolgere le loro armi contro i civili del Niger. Lo osserva Moussa Tchangari, noto attivista nigerino per la difesa dei diritti umani e della democrazia, segretario generale dell’organizzazione Alternative espaces citoyens, in una riflessione pubblicata sulla pagina Facebook del giornale locale Air Info-Agadez.
Tra dicembre 2020 e marzo 2021, mentre in Niger era in corso un processo elettorale di primo piano, almeno 262 persone, tutte civili, sono state freddamente uccise da elementi armati non identificati. Ultime, domenica, le 137 vittime uccise nella zona di Tillia, nella regione di Tahoua.
“Questo, per ragioni che i comuni cittadini ancora non riescono a capire chiaramente, e che nessun specialista in questioni di conflitto ha tentato di spiegare. Bisogna ammetterlo, il compito è difficile perché nessuna delle ultime tragedie è stata rivendicata”, ricorda Tchangari.
Oggi, anche se nessuna spiegazione è giunta sui motivi di questi crimini efferati, diverse spiegazioni stanno circolando nell’opinione pubblica. “Una di loro merita l’attenzione di tutti”, dice Tchangari, perché è stata avanzata dal governo e perché è stata menzionata anche dalle organizzazioni della società civile. Nella dichiarazione del governo dopo la strage di Banibangou, si legge che si è trattato di uccisioni mirate. Questa versione è stata sostenuta anche dalla società civile di Tillaberi, attraverso una dichiarazione che evoca una “pulizia etnica”.
La tesi della presa di mira su base etnica circola, e anche nelle ultime ore, si apprende che si stanno cercando informazioni sull’appartenenza comunitaria delle persone uccise a Tillia. “Ovviamente nessuno ha tentato di indicare l’identità comunitaria degli assassini, ma dobbiamo temere che, a forza di favorire l’ipotesi del ‘targeting etnico’, si finisce per dare una colorazione comunitaria a un conflitto di altra natura”, afferma l’attivista.
Considerando quanto sta accadendo in altri Paesi della regione, in particolare in Mali e Burkina Faso, “è importante misurare i rischi legati alla diffusione di voci, e a qualche frammento di informazioni verificate riguardanti i gruppi armati, ai quali si prestano velleità di pulizia etnica. Sono queste voci e informazioni, a volte diffuse di proposito, che hanno dato una svolta comunitaria al conflitto armato in Mali e sono loro che rischiano di aggiungere benzina al fuoco già ardente che sta devastando le regioni di Tillaberi, Tahoua e Diffa”, dichiara Tchangari.
Nel contesto attuale, già segnato da un maturare di “risentimenti e frustrazioni nati dalla gestione disastrosa del Paese negli ultimi dieci anni”, Tchangari invita a restare vigili e consapevoli della portata del pericolo che minaccia l’intero Sahel e di non cedere alla tentazione di “comunitarizzare” un conflitto “di cui tutti sappiamo che uno dei temi principali ruota proprio intorno alla salvaguardia stessa della sovranità e dell’integrità territoriale dei Paesi di quest’area”.
Se si verificasse una “comunitarizzazione” del conflitto in corso nel Sahel “a causa della nostra ipersensibilità alle teorie più nebulose, sarebbe spianata la strada dello smantellamento dei nostri Stati”, mette in guardia Moussa Tchangari.
All’insicurezza di matrice terroristica si aggiunge lo scontro politico nato dall’esito delle elezioni presidenziali. La vittoria ufficiale di Mohamed Bazoum, delfino del presidente uscente Mahadou Issoufou, è contestata con vigore dallo sfidante Mahamane Ousmane, che ieri ha lanciato un appello a una grande manifestazione nazionale e alla disobbedienza civile.
(Céline Camoin)