I bronzi del Benin, di cui si è tanto parlato in questi ultimi mesi, non rappresentano solo una questione di storia antica e profanazione coloniale.
Barnaby Phillips, giornalista britannico specializzato in questioni africane e direttore delle comunicazioni per la ong Elephant Protection, nel suo ultimo libro intitolato Loot: Britain and the Benin Bronzes, pubblicato in questo mese da Oneworld Publications, descrive la realtà degli artigiani contemporanei del bronzo, che in Nigeria continuano a realizzare pregevoli sculture in bronzo facendo ricorso a tecniche antiche: sono circa 120 e fanno parte di una gilda esclusiva, chiamata Igun Eronmwon.
I fonditori contemporanei di Igun Street, spiega Phillips, in gran parte sono costretti a lavorare per immagini, dato che il patrimonio a cui vorrebbero ispirarsi e che riproducono nelle loro sculture è custodito all’estero.
“Il miracolo di Igun Street non è ciò che viene venduto nella parte anteriore dei suoi umili negozi, ma ciò che accade nelle officine e negli studi posteriori. Su tratti di terreno accidentato, circondati da scarti e pile di blocchi, uomini seduti su sedie di plastica e panche di legno lavorano alla fusione di bronzo e ottone”, scrive Phillips. “Usano abilità apprese dai loro padri, che a loro volta hanno appreso dai loro padri, e così via, fino al tredicesimo secolo, dicono”.
Il mestiere del fonditore, nella terra oggi denominata Nigeria, era eminentemente maschile. Non veniva trasmesso alle donne per timore che, una volta sposate, lo portassero all’interno della nuovo famiglia. La tecnica usata era chiamata Lost wax, cera perduta.
Oggi, come in passato, i fonditori ottengono l’argilla necessaria alla scultura dalle rive del fiume Ikpoba, che attraversa il nord di Benin City. Una volta modellato il nucleo in una forma ruvida, questo viene coperto con un sottile strato di cera. Po si introducono i dettagli. “La cera deve essere abbastanza morbida da consentire la definizione di tali dettagli, ma sufficientemente dura da mantenere la sua forma”, scrive Phillips. “Successivamente, il fonditore copre il suo modello in cera con argilla finemente granulosa, per garantire che questo rivestimento esterno dia un’impressione fedele della cera sottostante. Quindi aggiunge uno strato di argilla più pesante all’esterno, assicurandosi che vi sia un piccolo solco attraverso il quale la cera potrà fuoriuscire. Fa asciugare il pezzo al sole, quindi lo cuoce a brace di carbone, fino a quando non raggiunge un calore tale da poter versare via la cera sciolta”.
Il momento successivo è quello più delicato. “Il fonditore prende il metallo fuso – bronzo o ottone – da una fornace e lo versa nello stampo lasciato dalla cera scomparsa, riempiendo ogni cavità e minuscola fessura. Se non è riuscito a riscaldare sufficientemente il pezzo, questi potrebbe rompersi quando versa il metallo liquido e deve buttare via tutto”.
Rispetto al passato, ovviamente, qualche cambiamento c’è stato. I fonditori hanno sostituito l’olio di gomito con l’aria compressa. La guerra del Biafra ha lasciato in eredità migliaia di cartucce di proettili esaurite utili per costruire i dettagli. Ma la novità più marcata è l’offerta ai turisti di questa tecnica sopraffina. “Per centinaia di anni, l’Igun Eronmwon ha lavorato per il suo unico e unico patrono, l’Oba, il re. Ora, i membri della gilda provano a vendere il loro lavoro ai turisti di passaggio, o sperano che un hotel o una banca commissionino una statua monumentale per un atrio, o che un uomo ricco commissioni un design in metallo per i cancelli della sua villa. O forse un pastore evangelico potrebbe volere un paio di mani giganti in preghiera per decorare l’esterno della sua chiesa”.
“Un mercante d’arte di Lagos, la sua casa un tempio del gusto raffinato nella scultura nigeriana tradizionale e contemporanea, mi ha detto quanto fosse rattristato che i membri dell’Igun Eronmwongilda spendono tutti i loro sforzi per replicare piuttosto che usare quelle abilità per rappresentare ciò che sta accadendo nel loro tempo”, racconta Phillips nel volume. Ma questo non sorprende: i fonditori di Benin City, come tanti in Nigeria, stanno lottando per tirare avanti. Hanno bisogno di cibo sulla loro tavola prima di poter pensare alla sperimentazione e alla creatività.
(Stefania Ragusa)