Nigeria: il sogno infranto della Repubblica di Kalakuta

di AFRICA

Il compianto Fela Kuti, padre dell’afrobeat e attivista per i diritti umani, aveva creato a Lagos una comunità autoproclamatasi indipendente dal governo nigeriano, controllato dai militari. I quali non apprezzavano affatto i suoi proclami di pace e giustizia social.

Negli anni Settanta, a Lagos, il cuore economico della Nigeria, c’era una repubblica indipendente. Aveva un nome che, al solo pronunciarlo, ancor oggi evoca le note di un sax contralto, testi anticoloniali e panafricani, odore di marijuana e promiscuità sessuale: “Repubblica di Kalakuta”, cioè una villa divenuta una nazione, dove Fela Kuti, il padre dell’afrobeat, viveva con i suoi amici e famigliari, gli adepti e tutti coloro che, oltre alla musica, condividevano con lui il messaggio di libertà e di rinnovamento della Nigeria, di lotta alla corruzione e di opposizione al regime militare e, soprattutto, di giustizia sociale. Quella comune indipendente, quell’enclave di libertà dove le giornate erano scandite dalla musica e dalla poesia, era una spina conficcata nel fianco del regime.

Voce controcorrente

Sono passati oltre vent’anni da quando, il 2 agosto 1997, Fela Anikulapo Kuti moriva di aids all’età di 58 anni. Ma il suo messaggio, i suoi pezzi lisergici e ipnotici, il suo sax lanciato con una leggerezza e una semplicità degna dei migliori jazzisti sono attuali come non mai. Poche settimane fa, in occasione dell’anniversario della sua scomparsa, la città di Lagos e il New Africa Shrine, il locale dove egli suonava con la sua orchestra, hanno organizzato una manifestazione internazionale, non solo per far rivivere la musica di una delle star africane più conosciute al mondo, ma per ridare luce (anche attraverso il Kalakuta Museum inaugurato di recente) alla filosofia di un artista che è quanto mai presente nella gioventù nigeriana. I giovani, infatti, da Lagos ad Abuja, oggi devono affrontare i problemi che Fela Kuti denunciava, orfani però di una guida come la sua.

Per intendere quindi l’eredità e il vuoto che Mister Afrobeat ha lasciato, occorre ritornare nella Nigeria anni Settanta, perché la vita personale del sassofonista, quella del suo Paese, la musica e la politica del tempo sono un unico imprescindibile e, solo analizzando il tutto nel suo insieme, si può arrivare a capire perché, nel 2017, i giovani urlino ancora nei locali, così come nei microfoni delle radio e negli atenei: «Zombie! Zombie!».

Repressione brutale

Era il 1977, anno topico della ribellione musicale a livello globale, quando uscì il disco Zombie. Un messaggio musicale e politico rivoluzionario, di una portata mai vista. Nel Paese africano, governato da una giunta militare spietata, Fela Kuti con i suoi musicisti dava alle stampe un pezzo nel quale, senza mezzi termini, diceva che i soldati altro non erano che degli zombie, che eseguivano gli ordini senza porsi domande, come lobotomizzati dal potere che li manovrava. E, non pago della provocazione, durante i live marciava al passo dell’oca delle SS.

Il governo militare di Obasanjo ritenne che quello era troppo. I soldati fecero irruzione nella Repubblica di Kalakuta, distrussero strumenti e arredo, diedero alle fiamme il generatore, massacrarono di botte i suoi abitanti, stimati in circa un centinaio, tra cui le ventisette mogli di Fela, che furono picchiate a sangue, alcune violentate. Sua madre, Funmilayo Ransome-Kuti, attivista politica e femminista (fu anche la prima donna in Nigeria a guidare una macchina), strenua sostenitrice del diritto di voto per le donne, fu gettata da un balcone riportando ferite che in tre mesi la condussero in coma e poi alla morte. Aveva 77 anni. Lo stesso Fela Kuti fu massacrato, gli ruppero un braccio e una gamba. «Potevo sentire le ossa che si rompevano sotto i colpi», dichiarò.

Spirito indomito

A dispetto della repressione, il vero spirito del musicista-attivista nigeriano emerse in quel momento: lo Stato negò ogni coinvolgimento e, sebbene fosse evidente la responsabilità dei militari, imputò a ignoti l’accaduto. L’artista replicò allora con un pezzo ancor più esplosivo: Unknown Soldier.

Guerrigliero della musica, barricadero e ribelle, ingombrante e polemico, tradizionalista e rivoluzionario, Fela fu tante cose. Di certo è più facile dire cosa non fu: né arrendevole né intimorito. Frequentò il conservatorio di Londra, andò a Los Angeles, entrò in contatto con i Black Panther e poi intraprese la carriera da suonatore e compositore facendo della musica ciò che riteneva fosse: «Un’arma da puntare al cuore del potere». Riuscì nell’intento: divenne il leader di un movimento di musica politica. E infatti il regime, non potendo colpire l’arte, colpì l’artista: più volte Fela Kuti conobbe il carcere e la tortura.

Vent’anni sono passati dalla sua morte, ma la Nigeria ancora vive molti dei problemi di fine anni Novanta, con la corruzione endemica e le lobby petrolifere che amministrano il potere, una guerriglia islamista nel Nord e una indipendentista nel Sud, e l’esercito che impone l’ordine con la violenza e la paura. Per questo che, oggi come non mai, l’eredità di Fela Kuti è importante.

(di Daniele Bellocchio)

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