Nigeria, la mossa del cavallo

di claudia

di Alberto Salza

Nelle regioni settentrionali della Nigeria la modernità convive ancora oggi con i costumi medievali dei califfati islamici. In queste regioni domina la cultura del popolo Hausa, contraddistinto da una grande intraprendenza commerciale, che ha fatto del cavallo il simbolo della sua fierezza e della sua tenacia.

Agli inizi degli anni Settanta, per chi traversava il Sahara fino in Niger, Agadez era ogni volta «la fine della pista». Ce lo dicevamo per farci coraggio, così come oggi, sotto lo stesso minareto in terra cruda, i ragazzini migranti sussurrano in direzione contraria: «Inizia l’avventura». A quei tempi non bastava uscire dalle sabbie per sentirsi al sicuro: a sud ci aspettavano la polvere del Sahel e la sopravvissuta cavalleria corazzata delle città-stato di Zinder, Bauchi, Katsina, Dutse-Jigawa, rimasugli di un medioevo africano retto da califfati (Sokoto) ed emirati (Kano).
Più a sud ancora c’era un mondo verde: durante le piogge ci misi una settimana a percorrere trenta chilometri di puro fango tra Nigeria e Camerun. Il dato ecologico e, quindi, geopolitico, è che l’Africa occidentale si affaccia sul Golfo di Guinea in funzione di un gradiente di isoiete (piovosità crescente) approssimativamente tripartito da nord a sud: deserto, savana, foresta. Data la scarsa comprensione ambientale ed etnografica dei colonizzatori europei, gli Stati di quest’area, vedi gli attuali Togo, Benin e Nigeria, vennero definiti risalendo i fiumi dall’Atlantico, per poi estendere il territorio a est e ovest di essi. La conseguenza fu di avere una geografia antistorica. Infatti, le popolazioni che condividevano gli ecosistemi (e quindi economie, lingue, usi e costumi) si trovarono frantumate da linee di confine in direzione nord-sud: parenti di quelli oltreconfine, là dove sorge o tramonta il sole, e nemici da sempre di quelli a settentrione o meridione.

Cosa distingue il sud dal nord

Così avvenne nell’attuale Nigeria: le genti del nord sono funzione della conversione forzata all’islam da parte degli imperi almoravidi a partire dall’XI secolo (per esempio Ghana, Mali e Songhai, non corrispondenti agli Stati attuali), con la formazione di emirati retti dalla sharia (Kanem-Bornu, Sokoto, Kano), mentre le popolazioni del sud sono connesse alle trasformazioni coloniali e moderniste da parte della Gran Bretagna con l’aiuto delle varie confessioni cristiane (oggi in gran parte evangeliche), disposte al sincretismo con la religione degli spiriti (vodun) per far presa sugli “indigeni da civilizzare”. Al di là delle divisioni religiose, spesso di facciata, si trattò alla fin fine di urbanizzazione e sfruttamento petrolifero al sud, contro commercio interportuale transahariano e jihad al nord.
Come avviene con la linea di crescita dello spinoso cram-cram che segna il limite sud per l’allevamento dei dromedari, così la demarcazione nord-sud fra i territori dell’attuale Nigeria fu legata alla sopravvivenza di un altro animale: il cavallo. La tripanosomiasi impedì alla cavalleria degli imperi del nord, in gran parte parlanti l’arabo e la lingua tonale hausa, di occupare le fertili terre di Yoruba, Ibo, Bini, e tutti gli altri gruppi vicini alla costa. La mosca tse-tse, che uccideva le mucche dei Fulani (gli agropastori che abitano la fascia saheliana dal Senegal al Camerun) e i cavalli degli Hausa, vive in ambienti umidi; non a caso, l’area meridionale della Nigeria era detta, per via della malaria, “la tomba dell’uomo bianco”, un altro mammifero non adatto alla foresta pluviale dell’entroterra atlantico dell’Africa.

Armature saracene

Potrà sembrarvi demente descrivere la cavalleria nigeriana nell’odierna era fatta di Nollywood su piattaforme cibernetiche e di intelligenza artificiale diffusa a Lagos come a Kano, ma ho ancora negli occhi gli yan lifida, i cavalieri che ci tagliavano la strada all’improvviso, sagome massicce nella pseudo-nebbia che vento e ruote sollevavano dalla terra rossa a sud di Zinder. Sembravano carrarmati, anche se la corazzatura era inconsistente a fermare eventuali proiettili di mitragliatori, usati oggi in tutto il Sahel al posto di lance e spade dritte derivate dall’armamentario dei crociati.
Un valente cavaliere degli Hausa – così come dei Fulani, trasformati dal cavallo nella “spada dei credenti dell’islam” – indossava un’armatura di chiara ispirazione saracena, fatta con trapunte in cotone imbottite di capoc. Anche se oggi sono visibili solo durante le parate commemorative, come la cerimonia del durbar per l’emiro di Kano (v. Africa, 2/2019), le parti dell’armatura hanno un nome specifico, a sottolineare l’importanza del soggetto cavallo-cavaliere nell’area culturale della Nigeria del nord.
Lombi e addome sono protetti dal bantan lifidi; il torace dal safa; il corsetto si chiama kumakumi. I cavalieri delle famiglie più abbienti possono indossare cotte di maglia metallica (sulke). L’elmo (si fa per dire) si chiama kwalkwali: un copricapo di stracci appallottolati sotto un ricettacolo di latta o di ottone, sormontato da piume di struzzo. La simbiosi visiva e operativa tra armiere e palafreno coinvolge ovviamente il cavallo: le gualdrappe (dan gaba) sono egualmente imbottite, decorate a broccato e vivacizzate da inserti di varia natura, per eleganza o potere magico.

La capacità commerciale Hausa

Durante una parata cerimoniale a Kano, un signore in doppiopetto mi disse: «Quando un Hausa vede cavallo e cavaliere, si volta a guardarli. E rimembra». Il moderno mondo degli Hausa, una popolazione di oltre 70 milioni di individui nella sola Nigeria, è tenuto assieme più dalla lingua comune che da un corpus di tradizioni condivise. Dati i numeri e la polverizzazione identitaria, parlare di “cultura hausa” è altrettanto idiota che scovare una fantomatica “cultura italiana”. L’ostinazione astorica e l’incomprensione antropologica di chi si occupa dell’Africa moderna negano la progressiva scomparsa delle folcloristiche processioni di cavalieri ed emiri nel nord della Nigeria. Bisogna però dire che, anche per gli Hausa, in questa sia pur ineluttabile e corretta trasformazione, il cavallo non ha perso il suo valore simbolico: in tutta la scultura del Sahel, la diade cavallo-cavaliere, mai disgiunta, è un soggetto ricorrente che rappresenta il potere non autoctono, ovvero divino, ritenuto buono in quanto tale. Non a caso, nell’area i proverbi son detti “cavalli della parola”, proprio per la capacità di veicolare le regole tramite formule esoteriche.

Eppure, superando il numero, la diffusione e una qualche sopravvivenza pluriforme di usi e costumi, gli Hausa sono noti in tutto il Sahel orientale per una caratteristica specifica: la capacità commerciale. Il che non è di poco conto, in una zona che visitai alla fine della guerra di secessione del Biafra, quando i morti li incontravi ancora per strada e non potevi non conoscere la fatwa dell’emiro di Kano contro i cristiani ibo del sud-est che volevano privatizzare tutto il petrolio.
Noi italiani eravamo in imbarazzo, con l’Eni preoccupata di perdere il controllo dei pozzi e schierata contro il Biafra degli Ibo, che era invece appoggiato dal Vaticano per motivi religiosi. Così, sulla pista che portava in Nigeria da Zinder, mi ritrovai a pensare a ciò che scrisse Kant: «È lo spirito del commercio che non può convivere con la guerra, e che prima o poi si impadronisce di ogni popolo. Allora gli Stati si vedono costretti a lavorare in favore della nobile pace». Gli Hausa, tra le orde fanatiche arrivate dal mondo islamico del nord e le frizioni delle comunità contadine del sud, si interposero sin dal X secolo come attori del doux commerce, la teoria per cui il gioco a somma positiva del commercio non può che essere più allettante del gioco a somma zero della guerra.

Dove l’oro cresce come la carota

Appena dopo aver passato il confine della Nigeria venendo da Agadez, nel pulviscolo tra il tramonto e la notte, incrociai un cavaliere hausa con due enormi tamburi ai lati dell’arcione. Avanzava nella savana, tutto solo, e suonava con le mazze una sorta di marcia lenta. Il rimbombo faceva vibrare il cervello. Agli inizi del rapporto tra nord e sud, i tamburi fecero la fortuna commerciale degli Hausa. In qualità di popolazione cerniera tra Sahara e “terre dei Neri” (Sud-an), gli Hausa svilupparono il “commercio muto”. Come descrive all’inizio del XIII secolo il cronachista arabo Yākūt: «I commercianti d’oro battono su enormi tamburi, il cui frastuono si sente oltre l’orizzonte. Quindi tirano fuori le mercanzie, le dispongono a terra, e poi si ritirano. I Sudan avanzano con il loro oro e ne mettono una certa quantità accanto a ciascuna mercanzia, e si ritirano.

I mercanti ritornano e, se soddisfatti, accettano l’offerta». Altrimenti la contrattazione muta prosegue fino alla reciproca soddisfazione.
Che altro si può fare, là dove non ci si conosce, si ha diversa religione e non si parla la stessa lingua, se non battere un tamburo per negoziare? La fortuna da commercianti degli Hausa, però, derivò dal mistero sull’origine dell’oro subsahariano, una risorsa che, a detta di un autore del X secolo, «da quelle parti cresce nella sabbia come le piante, così come crescono le carote; lo si raccoglie al sorgere del Sole». Se non ci credete, provate voi a piantar carote nel Sahel.

Questo articolo è uscito sul numero 4/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.

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