Nigeria, le bastonate che fanno crescere

di claudia

di Alberto Salza – foto di Jorge Fernandez / Alamy

Nel nord della Nigeria e del Benin, i giovani di etnia peul si sottopongono a una cerimonia dolorosa per diventare veri uomini. Attraverso lo sharo, cerimonia pubblica che si tiene due volte all’anno e che dura un’intera settimana, i ragazzi peul imparano a sopportare il dolore e dimostrano forza e coraggio alla comunità. Solo attraverso questa prova entreranno a far parte del mondo degli adulti, e potranno trovare moglie

Una bastonata sulla schiena fa bene. Almeno così devono pensarla i ragazzi che si sottopongono alla cerimonia denominata sharo (parola hausa che significa “fustigazione”), che si tiene nei villaggi del nord della Nigeria e del Benin abitati dai Jafun FulBe. Sono più noti come Fulani (all’inglese) e Peul (per i francofoni): il colonialismo fonetico e mentale dell’etnologia ci impedisce tuttora di chiamarli con il loro nome. Si tratta di una popolazione di pastori semi-sedentari che allevano vacche nel Sahel, la fascia di territorio tra deserto e savana che va dal Senegal al Camerun. Secondo loro attraverso quelle sferzate violente si diventa veri uomini, nel dolore.

Cicatrici mentali

Sulla qualità del dolore fisico come inibitore, esaltatore, formatore, pedagogo, redentore e via dicendo, abbiamo trattato altrove (Africa, 6/2019). In sostanza, la sofferenza che subiscono e infliggono i ragazzi nello sharo è una performance dove i partecipanti credono che le bastonate donino forza e coraggio, tramite una mistica che travalica il mondo sensoriale. «Losol (il bastone di tamarindo) funziona. Alla fine non si prova più dolore», è il mantra che senti ripetere prima, durante e dopo lo sharo.

Secondo le neuroscienze, ogni evento traumatico sul corpo lascia una traccia nel cervello, una neurofirma che integra una precedente neuromatrice elaborata a partire dagli eventi dell’individuo nella cultura di riferimento. Tale matrice è costruita tramite deformazioni nel sistema nervoso centrale indotte da passate esperienze, così potenti da essere indipendenti dai segnali sensoriali periferici: la bastonata non fa male, ma fabbrica l’uomo. E quindi i maschi guerreggiano, mentre le donne partoriscono. Nel dolore.

In Nigeria, il festival dello sharo si svolge due volte l’anno: durante il raccolto del sorgo rosso e nella festività islamica dell’Id el-Kabir. Non è propriamente un rito di passaggio, è piuttosto un test di mascolinità, un tentativo ripetibile (come l’esame di guida) per raggiungere l’eleggibilità al matrimonio.

Una cresima laica

Non tutti i FulBe usano la violenza su sé stessi per ottenere i favori della fanciulla più graziosa, però. Per esempio, mentre i Jafun si bastonano reciprocamente, i WoodaBe si agghindano, si truccano e danzano nella celeberrima cerimonia del gerewol. In conclusione, sharo è la forma laica di un rito simile alla cresima: il vescovo dà un buffetto al cresimando, e i giovani fulbe si scambiano legnate senza mostrare patimento.

Il dolore, per tutti noi, è un’esperienza antisociale: ci rende estraneo il corpo isolando la pena. Per recuperare la trasgressione sociale del corpo nel dolore, i ragazzi dello sharo annullano l’esteriorità della sofferenza (smorfie e gemiti) mentre garantiscono agli spettatori la visibilità degli effetti (ferite sanguinanti). Per i FulBe, come per molte popolazioni subsahariane, sentir male è vergogna, poiché significa che non si è pronti al bene, o che si è fatto del male.

La cerimonia pubblica dello sharo si tiene in luoghi aperti come il mercato, e dura una settimana. Il contorno visivo-sonoro è dato da tremulo femminile, cantori di poemi epici, saltimbanchi, ragazze danzanti, venditori di noci di cola. All’attenzione c’è la processione dei maschi celibi a torso nudo, che vengono scortati verso il ring dalle fanciulle più graziose. Per mesi si sono allenati a ricevere bastonate senza batter ciglio: ora si guardano negli occhi facendo la faccia feroce. E qui scoppia la baraonda dei tamburi e degli incitamenti degli spettatori.

Mai mostrarsi deboli

Le famiglie dei contendenti pregano ad alta voce di non subire la disgrazia di un figlio che mostri di sentire dolore. Se fallisse, magari potrebbe anche rimediare una moglie, un giorno o l’altro, ma lui e tutto il clan sarebbero oggetto di perpetuo ludibrio. Al centro degli astanti si forma un anello di donzelle da marito. I protagonisti dello sharo vanno lì: uno, il fiyowo, ha il ruolo di chi bastona (in un’altra occasione i ruoli saranno invertiti); l’altro, il fiyetedo, rimane il più immobile possibile mentre viene colpito alla schiena e al petto. Tiene la mano destra alta sulla testa e uno specchietto nella sinistra, per controllare le espressioni del viso e vedere l’effetto che fa. Intanto comincia a cantilenare. La ripetizione sonora su toni acuti provoca il rilascio di endorfine (anestetici corporei più efficaci degli oppiacei). Inoltre ha assunto un infuso di semi psicoattivi di Datura metel, in grado di stimolare, tramite l’isociamina, il controllo al bisogno di sudare, piangere, farsela addosso.

In fondo il tutto è una messa in scena di competizione tra famiglie o contrade: i fantini del Palio di Siena si prendono ben a scudisciate, no? Però, nel mondo reale che va oltre al prestigio e alle cicatrici da esibire, di sharo si può morire. Pochi anni fa (2017, villaggio di Durmin Biri), Inusa e Saidu si contesero una fanciulla nello sharo. Prima Inusa bastonò Saidu. Tutto bene. Poi toccò a Saidu che rifilò a Inusa una tremenda legnata sulla nuca, non si sa se per sbaglio o ripicca. Inusa è morto in ospedale e Saidu è stato prontamente arrestato. Avvertendo la mancanza di entrambi, la savana attorno a Durmin Biri è peggiorata.

Ogni FulBe nasce e vive in un ambiente fisico-sociale, dove il corpo può essere amico di una montagna, parente di un fiume, ostile a un’intera famiglia. E dove quelli che noi chiamiamo usi-e-costumi o, peggio, tradizione, sono tawangaal: “ciò che si trova sul cammino”. Come scrive Rainer Maria Rilke: «Il dolore ci porta spesso in regioni incommensurabili per le quali a stento abbiamo un linguaggio». Tutte le volte che ho traversato il Sahara e il Sahel, la vista dei partecipanti allo sharo dalle parti di Zinder mi è stata indifferente: pensavo di aver sofferto abbastanza di mio sulle piste, senza dovermi occupare del dolore degli altri.

Questo articolo è uscito sul numero 6/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.

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