Per Enza Guccione, vivere in Africa da pia religiosa, in convento, non è bastato più. L’appello di un vescovo nigeriano, a caccia di buone volontà per una presenza di Chiesa in una regione “dimenticata da Dio”, è stato per lei il detonatore dell’opzione per i più poveri. E… isolati.
L’isola di suor Enza non compare su mappe o carte nautiche. Per trovarla, bisogna osservare con attenzione un’immagine satellitare del Golfo di Guinea e risalire a ritroso con lo sguardo il percorso del fiume Niger, dalla sua foce a forma di ventaglio fino a ben oltre la città di Onitsha, nel ventre molle della Nigeria, dove le curve del serpente liquido sembrano aggrovigliarsi in una spirale dal destino incerto. In prossimità della riva destra che segna l’inizio dello Stato dell’Anambra si distingue a fatica una macchia color caffelatte dai contorni mutevoli, che nella stagione delle piogge si riduce fin quasi a scomparire: lì si trova Enza Guccione, 57 anni, suora missionaria di origini palermitane.
Dal 2009 vive dove nessun occidentale aveva mai osato: un villaggio di nome Igbedor circondato da acque limacciose che periodicamente minacciano di inghiottire tutto e tutti. «Siamo in mezzo al fiume, sospesi tra la vita e la morte, in balia di eventi che non possiamo contrastare», aveva scritto in un messaggio di aiuto che un tempo sarebbe stato affidato a bottiglia abbandonata alla corrente… e che invece aveva diffuso su Facebook.
Dove anche il fiume è stanco
Arrivarci non è facile. Bisogna anzitutto riuscire a lasciare Lagos, capitale economica della Nigeria, i cui micidiali ingorghi sono capaci di paralizzare ogni movimento. Usciti dal pandemonio di clacson e grovigli di lamiere roventi, ci si dirige a est, su una strada che non finisce mai, costellata com’è di cantieri, incidenti, rallentamenti, carcasse di veicoli sventrati e centinaia di posti di blocco (predisposti ogni pochi chilometri da poliziotti e militari al solo scopo di estorcere denaro). Ogni sosta forzata, ogni fermata imposta da cause di forza maggiore, è un’occasione preziosa per gli ambulanti. Si attaccano ai finestrini per offrire ogni genere di mercanzia: bevande fresche, noccioline, plantani fritti, occhiali da sole, custodie per smartphone, ventilatori portatili, calzini e fazzoletti… insomma tutto ciò che si potrebbe trovare in un autogrill.
Dopo almeno sei ore di viaggio, il nastro d’asfalto termina all’improvviso, lasciando il posto a una pista percorribile solo con un fuoristrada o in sella a una moto da enduro. Si prosegue a fatica, zigzagando tra pozzanghere, trappole di sabbia e voragini paurose, fino al Niger. Il grande fiume è una pallida lama di luce che si confonde col cielo lattiginoso. Ha attraversato per quattromila chilometri le piane arroventate del Sahel, ha lambito le dune del Sahara, e ora che punta all’oceano appare spossato. L’aria umida e densa sembra rallentarne il viaggio. Una piroga solitaria tenta di intercettare la brezza dell’harmattan con una vela di sacchi di cemento cuciti assieme. In senso opposto, la nostra piccola imbarcazione a motore fende controcorrente le acque torbide. Finché, dalla caligine e dalla polvere che avvolge il paesaggio, finalmente spunta “l’isola che non c’è”.
Scelta radicale
Igbedor, termine della lingua igala, significa “stirpe dolente”, “popolo tormentato”. Un nome, un destino. Gli ottomila abitanti del villaggio vivono ammassati su un fazzoletto di terra che in alcuni momenti dell’anno pare una zattera troppo carica per non affondare. Le abitazioni sono affastellate l’una sull’altra senza ordine apparente: capanne di terra col tetto in paglia si alternano a casupole, quasi mai terminate, di mattoni grigi e lamiere ondulate. È facile smarrirsi nel labirinto dei vicoli in cui razzolano galline e scorrazzano bambini.
A farmi strada, sister Enza, volto sorridente incorniciato da un velo floreale. «Sui muri delle case si vedono ancora i segni dell’ultima alluvione», fa notare mentre mi invita nella sua missione: pochi metri quadri condivisi con una mezza dozzina di consorelle nigeriane – perché il suo esempio trascina – al secondo piano di un edificio malmesso. «Sei anni fa, al culmine della stagione delle piogge, il Niger si era gonfiato a dismisura e sul villaggio si abbatté un’ondata fangosa. L’acqua piombò in piena notte senza dare scampo. Nel buio sentivo urla disperate di aiuto. Furono spazzate via decine di abitazioni. I più fortunati riuscirono a rifugiarsi sui tetti o ad aggrapparsi agli alberi, ma persero tutto. Rimasi isolata per tre settimane, senza comunicazione con l’esterno. Non temevo i coccodrilli e i serpenti velenosi, pregavo il cielo che ci risparmiasse il collasso della nostra abitazione».
Il fiume si è poi ritirato, suor Enza no: ha deciso di restare. «Sono in Nigeria da ventidue anni», racconta sul ballatoio, dove cerca un refolo di aria fresca. «Per lungo tempo ho fatto parte di una congregazione semimonastica. Passavo le giornate a pregare e preparare l’occorrente per la liturgia. Poi, un giorno, su invito del vescovo, venni a visitare quest’area sperduta. Fu uno shock vedere tanti poveri ed emarginati… a poca distanza dal Delta del petrolio, la cassaforte della ricchezza nigeriana. Non riuscii più a rifugiarmi nella tranquillità del convento. Chiesi alle mie superiori di aprire una stazione missionaria tra la popolazione diseredata del fiume. «Hai perso il lume della ragione – mi risposero –, nessuno sano di mente vorrebbe vivere tra i pidocchi e le zanzare». Mi buttarono fuori dall’istituto. Allora decisi di fondare una comunità di suore, la Emmanuel Family, che in tempi brevi ottenne il riconoscimento dalla diocesi di Onitsha. La nostra missione? Testimoniare il Vangelo prendendoci cura dei più bisognosi, affrontando assieme i problemi che affliggono questo lembo di terra dimenticata».
Il sogno della clinica
A Igbedor non c’è corrente elettrica (un paio di generatori vengono azionati saltuariamente) e manca pure l’acqua potabile. I bambini fanno la spola coi secchi da casa al fiume. Poi vanno a dare una mano nei campi. Le suore hanno avviato da poco una scuola e un asilo. Ma in tanti non arrivano neppure ai cinque anni di età. «Muoiono di tifo, colera, malaria, polmoniti, febbri emorragiche, banali infezioni intestinali», riferisce suor Enza. Fino all’ospedale più vicino servono quattro ore di navigazione, viaggio inutile se non hai soldi per il ricovero. «I malati qui vengono curati con intrugli d’erbe e radici… Spesso, quando arrivano da noi sono agonizzanti. Troppo tardi. Ma a volte succede il miracolo», e indica una bimba che gioca ai suoi piedi. «Ha tre anni, si chiama Filomena, la mamma è morta durante il parto per un’emorragia». La neonata era in fin di vita quando è stata portata dalle suore: l’hanno salvata somministrandole gocce medicinali e latte in polvere. Oggi è la mascotte della comunità.
«Per una vita che riusciamo a salvare, altre dieci le perdiamo: mancano farmaci e operatori sanitari», si rammarica suor Enza, che sta cercando di attivare una piccola clinica (per aiutare: emmanuel-family-italia.org).
Convertire? Condividere!
Il tempo scorre lento in mezzo al fiume, come si adeguasse alle sue acque indolenti. Le giornate sono cadenzate dal rumore dei pestelli nei mortai, usati dalle donne per macinare la farina, e dai tamburi che riecheggiano da una parte all’altra dell’isola per trasmettere messaggi decriptabili solo da chi è nato qui. A governare c’è un vecchio re, assistito da un consiglio di notabili che si raduna ogni otto giorni sotto il grande albero per discutere i problemi, risolvere le controversie, assicurare la coesione sociale. Suor Enza è l’unica donna a cui sia consentito partecipare e prendere la parola. «Mi portano rispetto perché mi considerano una donna di fede… anche se in pochi conoscono la mia fede», si schermisce. L’isolamento e il clima hanno a lungo scoraggiato l’insediamento di missionari cristiani e predicatori islamici. Sull’isola non c’è nemmeno la moschea, e le due chiese (l’una cattolica, l’altra anglicana) sono pressoché vuote. «Non importa – dice la missionaria –. Non sono venuta qui per convertire, ma per condividere».
Un “piccolo mondo antico”
Durante la stagione secca, le acque del fiume si abbassano e lasciano affiorare terreni fertili. Le donne affondano i piedi nelle risaie, gli uomini lavorano la terra con zappe e machete all’ombra di palme e manghi. La sera, le famiglie si radunano attorno al fuoco per la cena. I vicoli profumano di igname bollito, zuppe di erbe selvatiche, pesce alla brace, polenta di manioca e olio di palma. La luna rischiara i vecchi cantastorie che rievocano il passato e raccontano vicende tra realtà e leggenda: narrano di pesci mastodontici, streghe terrificanti, guerrieri valorosi, invasioni di locuste e terribili carestie (come quella di cinquant’anni fa durante la guerra del Biafra). Per scongiurare nuove calamità, invocano gli spiriti del fiume contro le forze del male. Un “piccolo mondo antico” che ricorda l’Africa di Chinua Achebe. Il villaggio è costellato di amuleti, feticci e altari sacrificali dove si sgozzano polli e capre in onore degli antenati.
«A volte mi sento spaesata in questo mondo – ammette la religiosa –. Per comunicare con amici e parenti in Italia uso il mio profilo Facebook… quando ho la sorte di captare il segnale della rete». Gli smartphone sono arrivati anche qui, ma i giovani li usano per guardare videoclip e ascoltare musica. John, vent’anni, mi mostra le immagini di un concerto rap in uno stadio gremito di ragazzi che ballano, scattano foto, si divertono. «Ogni sera mi guardo questo video – sospira –. Prima o poi lascerò l’isola, andrò sull’altra sponda del fiume e non ritornerò mai più».
(Marco Trovato)