di Mariachiara Boldrini
Diverse e contrastate reazioni sono giunte dal continente africano in seguito alla morte della regina Elisabetta d’Inghilterra. Sui social si è creato da subito un forte dibattito. Ad emergere l’insofferenza di molti africani e afrodiscendenti per il clima di ossequio e devozione nei confronti di un’istituzione, la monarchia inglese, “arricchitasi attraverso la violenza e l’oppressione” come hanno denunciato alcuni intellettuali. Quale eredità lascia la regina?
di Mariachiara Boldrini
“Questo è un giorno felice per me, ma anche un giorno che porta con sé riflessioni su nuove sfide e opportunità”. Quel giorno era il 21 aprile del 1947, la regina Elisabetta II – all’epoca ancora principessa – compiva 21 anni e per l’occasione pronunciava il suo primo discorso alla Nazione britannica e ai sudditi delle colonie. La sorte, o forse una più oculata strategia di mantenimento dei possedimenti d’Oltremare in un periodo di stravolgimento mondiale, vollero che Elisabetta si trovasse in Africa, precisamente a Capetown. “Innanzi a tutti voi dichiaro oggi che la mia intera vita, sia essa lunga o breve, sarà dedicata al servizio vostro e della grande famiglia imperiale alla quale tutti apparteniamo”, affermò in diretta radio internazionale durante quello che è passato alla storia come un atto di giuramento, ricordato anche dal figlio, Re Carlo III, nel suo primo discorso pubblico il 9 Settembre scorso. “Non avrò la forza di portare a termine questa risoluzione da sola, se non vi unirete a me come vi chiedo di fare”, concluse Elisabetta quel giorno, chiedendo fiducia ai sudditi dell’Impero.
La reazione a quel discorso, letto con gli occhi traballanti a 6mila miglia da casa, fu un successo ad ogni angolo del globo, ma appena tre mesi dopo l’unità dell’Impero di Re Giorno iniziò a scricchiolare e l’India, “gioiello della Corona”, si proclamò indipendente. Decenni di educazione coloniale e i combattimenti della seconda guerra mondiale avevano diffuso lo spirito di una nuova consapevolezza e il desiderio di auto-determinazione che avrebbe guidato i percorsi verso l’Indipendenza delle ex – colonie. Era l’inizio di un nuovo mondo, di una nuova epoca storica segnata irrimediabilmente dallo sgretolarsi del più grande Impero dei tempi moderni, un’epoca che sarebbe coincisa proprio con la “nuova età elisabettiana”, la quale – ironia della sorte – iniziò proprio in Africa. Quando Re Giorgio VI venne a mancare, nel 1952, l’erede al trono Elisabetta Alexandra Mary si trovava infatti in Kenya, allora colonia inglese, per un viaggio di rappresentanza trasformatosi in viaggio di nozze. Erano passati solo cinque anni dal suo discorso in Sudafrica ed Elisabetta stava ereditando un’Inghilterra ancora da ricostruire dopo la seconda guerra mondiale ed un Impero dove i venti di cambiamento sembravano inarrestabili.
Il vento del cambiamento
Durante la sua incoronazione nel 1953, la prima della storia in diretta televisiva, Elisabetta indossò un abito rappresentante gli emblemi floreali dei Paesi del Commonwealth, amici “liberi ed eguali” della Gran Bretagna. Il Commonwealth delle Nazioni, nato ufficialmente nel 1931 e costituito con la Dichiarazione di Londra del 1949 (solo tre anni prima che Elisabetta salisse al trono), divenne così fin da subito lo strumento che permise alla Regina venticinquenne di mantenere un legame con i possedimenti coloniali che avrebbero presto ottenuto l’Indipendenza, l’organizzazione attraverso cui assegnare un ruolo alla Corona anche laddove la monarchia veniva man mano sostituita con le Repubbliche.
Nel commemorare la morte della Regina Elisabetta II l’attuale Presidente del Ghana, Nana Akufo-Addo, ha ricordato “affettuosamente” le sue visite nel Paese: “di entrambe le occasioni ricordiamo la cordialità, l’eleganza, lo stile e la pura gioia che ha avuto nell’adempimento dei suoi doveri”, ha detto. Il più memorabile dei due incontri risale al 1961, quattro anni dopo l’indipendenza del Ghana di Kwame Nkrumah, il quale non mancò di sottolineare alla Regina che il “vento del cambiamento che soffiava attraverso l’Africa” era diventato, ormai, “un uragano”. Il rivoluzionario panafricanista aggiunse, però, che la considerazione e l’affetto personale per Sua Maestà sarebbero rimasti inalterati ed Elisabetta finì per ballare col Presidente, rendendosi protagonista di una delle scene più iconiche del percorso di liberazione del continente.
Tra le varie dichiarazioni dei leader africani colpisce quella di Ali Bongo Ondimba, Presidente del Gabon, ex colonia francese con cui il Regno Unito ha ampliato le relazioni solo recentemente, perché il Paese è entrato nel Commonwealth a giugno scorso. Nel suo messaggio di addio Ondimba ha definito la regina Elisabetta “una grande amica dell’Africa”, mentre secondo Muhammadu Buhari, presidente della Nigeria (paese il cui destino è stato profondamente plasmato dal dominio coloniale inglese), “la storia della moderna Nigeria non sarà mai completa senza un capitolo sulla regina Elisabetta II”.
Un’eredità controversa
William Ruto, nuovo leader kenyota, si è limitato a descrivere la guida elisabettiana del Commonwealth come “ammirevole” e non si è addentrato nelle dinamiche storiche del conflitto tra l’Inghilterra e il Kenya indipendentista, ma è chiaro che la valenza simbolica riconosciuta alla monarca non è sufficiente per nascondere le atrocità del passato, che la sua morte sembrano invece far riaffiorare. Mentre i leader di tutto il mondo, Africa compresa, hanno reso solenne omaggio alla defunta monarca, alcuni intellettuali e attivisti antirazzisti ricordano, d’altra parte, le atrocità perpetrate o avvallate dagli inglesi durante la schiavitù, la colonizzazione e le guerre di decolonizzazione.
Twitter è la principale vetrina di un dibattito aspro che macchia l’eredità di Elisabetta degli orrori della storia. “I figli della decolonizzazione”, discendenti degli oppressi del passato, dicono di sentirsi offesi dalla deferenza e dal rispetto che il mondo intero sta esprimendo verso una donna simbolo di un’istituzione profondamente violenta: la Monarchia Inglese. Uju Anya, professore associato alla Carnegie Mellon University, si è chiesta per esempio come ci si può aspettare che lei non esprima disprezzo per la monarca che ha spalleggiato il governo che ha commesso un genocidio e massacrato metà della sua famiglia, in Nigeria. Il suo tweet è stato retwittato più di 10.000 volte e solo giovedì ha raccolto quasi 38.000 like solo, giorno in cui la Regina è deceduta.
Già a giugno scorso, in occasione delle celebrazioni del Giubileo, il fumettista keniota Patrick Gathara, aveva ricordato come la Regina “non avesse mai ammesso pubblicamente, né si fosse mai scusata per l’oppressione, la tortura, la disumanizzazione e l’espropriazione subite dalle persone nella colonia del Kenya prima e dopo la sua salita al trono”.
Il clima di ossequio e devozione nei confronti di un’istituzione arricchitasi attraverso la violenza e l’oppressione, denunciano alcuni intellettuali, è un atteggiamento violento di razzismo e neo colonialismo. “Se la regina si fosse scusata e avesse esortato la Corona a offrire riparazioni per i milioni di vite prese a suo nome, allora forse sarei umana e mi sentirei male per la sua morte. Come keniota, non provo niente, questo teatro è assurdo”, si legge in uno dei tweet più popolari.
L’amicizia con Madiba
Anche il partito d’opposizione sudafricano Economic Freedom Fighters ha dichiarato che i suoi esponenti non avrebbero pianto la Regina perché “ricordo di un periodo molto tragico nella storia del Paese e dell’Africa”.
Diversamente, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha definito “un esempio per l’intero mondo” la donna che, per i primi nove anni del suo Regno, fu anche sovrana sudafricana. Sin da quel primo discorso nel 1947, la storia del Paese arcobaleno e di Elisabetta II è stata intrinsecamente legata. Proprio per il Sudafrica, forse, Elisabetta cedette all’imparzialità che era richiesta al suo ruolo quando la sua prima ministra, Margaret Thatcher, non voleva applicare sanzioni integrali contro il regime di apartheid. Nel 1961 il Paese lascerà il Commonwealth e ci rientrerà solo nel 1994, quando la democrazia sarà restaurata e il leader del Paese sarà Nelson Mandela, che la regina chiamava Madiba in virtù del rapporto di amicizia personale che li legava.
La lotta all’apartheid è un’eccezione rumorosa perché le eccezioni non le erano permesse. Nemmeno la Brexit ha mai lasciato trapelare le opinioni politiche di una donna la cui umanità era annullata nella rappresentazione del ruolo. Puntualmente lucida nei suoi discorsi al pubblico, ha fatto sempre quello che doveva esser fatto affinché il Regno Unito permanesse nella sua condizione di potenza, navigando con successo nella neutralità politica costituzionale del monarca.
In passato, prima di lasciare i suoi impegni istituzionali e in concomitanza con le voci di un suo possibile trasferimento proprio in Sudafrica, suo nipote Harry, duca di Sussex, affermò la necessità di riconoscere gli errori storici e le responsabilità inglesi. Non ci è dato sapere se anche Elisabetta avesse a cuore le atrocità commesse dall’impero, ma quel che è certo è che diversamente dai membri della sua famiglia non le era permesso esprimere rammarico.
La Regina del Commonwealth
La sua morte ha ricordato come, agli occhi di molti, Elisabetta II è colei che più di tutti gli altri monarchi inglesi ha partecipato attivamente al colonialismo, tentando di arrestare i movimenti d’indipendenza attraverso lo strumento del Commonwealth. La realtà è che i legami storici con le ex colonie si sono mantenuti nel corso del tempo, ma Elisabetta ha lasciato poco dell’Impero che ha ereditato dal padre, Giorgio VI, al figlio, il nuovo Re di Gran Bretagna, Irlanda del Nord e dei Reami del Commonwealth, Re Carlo III. Oggi i possedimenti africani dell’Impero sono tutti Paesi Sovrani che mantengono relazioni economiche e culturali col Regno Unito grazie al Commonwealth della Nazioni. ‘Solo’ quattordici Stati dell’Organizzazione, quasi tutti ai Caraibi, riconoscono la Regina inglese come Capo di Stato. Proprio ai Caraibi, però, la morte di Elisabetta ha provocato sentimenti contrastanti e si sta avviando negli ultimi anni un dibattito politico riguardante la possibilità di abbandonare la Corona Britannica e far propria la Repubblica.
Secondo lo storico David Cannadine l’eredità di Elisabetta II è allo stesso tempo simbolo di una transizione e del declino della società britannica verso “una società molto più fluida, multiculturale e più laica”, col “ridimensionamento dell’Impero britannico nel Commonwealth britannico”. Nel suo discorso natalizio del 2006 Elisabetta stessa disse: “ho vissuto abbastanza a lungo da sapere che le cose non rimangono mai le stesse troppo a lungo”. C’è da chiedersi se anche il nuovo sovrano, Carlo III, ne sia consapevole e per quanto ancora l’appartenenza delle ex colonie al Commonwealth potrà evitare una rilettura condivisa della storia.
La prima a esprimere cordoglio dopo la notizia della sua morte, la neo prima ministra Liz Truss, ha detto che Elisabetta II è stata “la roccia su cui la moderna Gran Bretagna è stata costruita”. Una Gran Bretagna che sicuramente si è lasciata alle spalle il passato imperiale ed è oggi tra i paesi più multiculturali al mondo, ma una Gran Bretagna che necessita, ancora, di strumenti per affrontare le responsabilità storiche e tenere unita quella che Sua Maestà Carlo III, nel suo discorso di insediamento, ha chiamato, nuovamente, “la comunità globale del Commonwealth”.