Oggi si celebra la Giornata mondiale dedicata alla lotta alle mutilazioni genitali femminili (Mgf). Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sarebbero più di 130 milioni le donne che nel mondo sono state sottoposte a questa pratica, il 90% delle quali vive in Africa.
Le Mgf sono una delle più gravi e devastanti violazioni dei diritti umani delle donne. Comprendono le procedure che comportano la rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni o altre lesioni agli organi genitali femminili che vengono effettuate per ragioni non mediche. Queste pratiche sono sempre eseguite nel periodo giovanile. Sempre l’Oms ritiene che solo in Africa siano a rischio ogni anno circa 3 milioni di bambine. Per chi le subisce, le Mgf rappresentano un danno fisico, con effetti nefasti che possono prodursi per tutta la vita della donna, ma anche psicologico, limitando o annullando del tutto il piacere sessuale.
Erroneamente associate all’Islam (che per secoli le ha tollerate), affondano invece le loro radici in pratiche ancestrali. Non è un caso che in alcuni Paesi, come l’Etiopia e l’Eritrea per esempio, vengono praticate anche sulle giovani donne cristiane. Alla base di questa pratica c’è il desiderio del controllo della sessualità femminile. Molti popolazioni ritengono che le Mgf preserverebbero meglio la verginità della giovane e la fedeltà al marito della donna adulta. Ma è anche considerato un rito di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, infatti non è un caso che siano le stesse madri (o comunque le parenti più strette) a premere affinché la ragazza subisca la mutilazione.
In tutto Occidente le Mgf sono vietate dai diversi ordinamenti legislativi. Spesso, però, gli immigrati aggirano le norme portando le figlie o le nipoti nei Paesi d’origine, dove i controlli sono meno rigidi e le pratiche più tollerate. Anche l’Onu le ha messe al bando, richiamando gli Stati membri all’impegno a combattere le Mgf. Nonostante ciò, su 28 Paesi africani dov’è ancora presente la pratica solo 18 hanno adottato una legge che le vieta. Mali, Sierra Leone, Sudan, Gambia, Liberia, Costa D’Avorio, Guinea Bissau, Repubblica Centrafricana, Camerun e Uganda non sono mai intervenuti per creare strumenti legislativi ad hoc.
Sebbene necessario, il semplice divieto legislativo però è sufficiente a debellare questa tradizione. Secondo gli operatori umanitari, è indispensabile un profondo lavoro culturale portato avanti nelle scuole e nelle singole comunità attraverso un approccio diretto con la popolazione che miri al dialogo e far conoscere le conseguenze sulle donne.