In Europa è oggi demonizzato, ma di questo olio l’Africa si nutre da sempre. Proviamo a fare chiarezza
Mezzo miliardo di persone, il 70% degli abitanti dell’Africa subsahariana, utilizzano ogni giorno l’olio di palma per cucinare. Nessuno studioso si era mai preoccupato di capire se fosse un alimento nocivo per la salute di una popolazione così vasta. I primi studi scientifici sono stati condotti alla fine degli anni Novanta, quando la grande industria alimentare ha iniziato a utilizzare in maniera diffusa il prodotto per la frittura e per la conservazione degli alimenti confezionati (biscotti, merendine, gelati, cioccolato, zuppe e così via). A quel punto, in Occidente si è cominciato a interrogarsi sulla sicurezza dell’olio di palma. Le proprietà che lo rendono conveniente a livello industriale sono numerose: è incolore, insapore, altamente versatile, facilmente digeribile, resiste all’ossidazione, possiede una forte resistenza alla temperatura e al sole, migliora la consistenza e la durata dei cibi. Soprattutto, costa poco.
Sotto accusa
Meno chiari sono gli eventuali effetti indesiderati o nocivi sull’uomo e sull’ambiente: la questione è fonte di ricerche e di controversie che agitano imprenditori, ricercatori, consumatori ed ecologisti. Taluni demonizzano l’olio di palma – e tra loro ci sono qualificati professionisti – perché innalzerebbe il colesterolo e favorirebbe l’insorgenza di disturbi cardiovascolari. Inoltre, secondo un recente studio dell’Efsa (l’autorità europea per la sicurezza alimentare), la sua raffinazione genererebbe sostanze cancerogene e potenzialmente tossiche per l’organismo.
Sotto accusa è finita anche la coltivazione intensiva delle palme da olio che nuocerebbe all’ecosistema. Sui social network è dilagata una campagna di boicottaggio che ha spinto alcuni gruppi industriali a evidenziare in pubblicità e confezioni la dicitura “Senza olio di palma”. La catena di distribuzione delle Coop ha deciso di bandire il prodotto dai propri scaffali.
Terrorismo alimentare?
Eppure c’è chi ne difende l’impiego e ne esalta le proprietà benefiche, a cominciare dall’alto contenuto di vitamina E di sostanze antiossidanti. Come la Ferrero, che lo utilizza per produrre la Nutella. «Pensiamo che il nostro olio di palma sia un ingrediente di qualità – fa sapere il gruppo di Alba –, controllato in tutta la filiera e prodotto in modo sostenibile». A scagionare l’olio di palma è stato un recente studio dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, che ha ridimensionato il ruolo negativo degli acidi grassi saturi sull’innalzamento del colesterolo sanguigno, principale fattore di rischio delle malattie cardiovascolari. Lapidaria la conclusione dei ricercatori: «La campagna denigratoria sull’olio di palma non ha alcun riscontro nell’evidenza scientifica».
Anche il timore che l’olio potesse favorire l’insorgere del diabete di tipo 2 è stato smentito dagli esperti. L’Italia importa ogni anno un milione e mezzo di tonnellate di olio di palma (ma la gran parte viene usata nei settori bioenergetico, zootecnico, cosmetico e farmaceutico). Il viceministro dell’Agricoltura Andrea Olivero ha invitato a «non fare terrorismo alimentare», ricordando che la severa legge comunitaria – che tutela la salute di cinquecento milioni di persone –, non pone ostacoli alla commercializzazione e all’uso dell’olio di palma.
Grezzo o raffinato
I consumatori sono disorientati: questo alimento fa male oppure no? È davvero nocivo per l’ambiente, o si tratta di accuse infondate? Cerchiamo di fare chiarezza. Anzitutto va ricordato che stiamo parlando dell’olio vegetale più consumato al mondo: rappresenta il 37% dell’intera produzione mondiale di oli vegetali (seguito dalla soia con il 28%, dalla colza con il 15%, dal girasole con il 11%, dalle arachidi con l’8%, dall’olio di oliva con l’1%).
Inoltre è opportuno distinguere tra olio grezzo e raffinato. Il primo, diffuso soprattutto in Africa, si ricava dai frutti in grappoli della palma – che vengono denocciolati, pressati e filtrati –, dei quali mantiene il caratteristico colore arancio rosso dovuto all’alta concentrazione di carotenoidi (salutari pigmenti di origine vegetale). A temperatura ambiente ha una consistenza semisolida simile allo strutto, dovuta all’elevata quantità di acidi grassi saturi che, però, sono compensati dalla presenza di una buona dose di antiossidanti e di vitamina E.
L’olio di palma raffinato, invece, è ottenuto da una serie di lavorazioni che consentono di convertirlo in forma liquida: si tratta di processi che alterano le caratteristiche organolettiche del prodotto e fanno perdere gli antiossidanti presenti nella forma grezza.
«Buon senso»
«La controversia sull’olio di palma deriva dalla confusione e dalla non chiarezza su quale tipo di olio si stia parlando», fa presente Caterina Perfetto, esperta di igiene alimentare, nutrizione e benessere, in un articolo su Viversano.net. «L’olio grezzo, usato spesso in Africa, per tutte le sue caratteristiche non rappresenta di per sé un grosso rischio per la salute di cuore e arterie o per il problema di sovrappeso e obesità. Purtroppo, però, quello che viene usato dalle industrie alimentari non è questo, ma il suo equivalente raffinato che ha ormai perso tutte le sue sostanze benefiche a favore, ahinoi, dei soli acidi grassi saturi».
Per non favorire l’insorgenza di malattie cardiovascolare sarebbe opportuno seguire il principio precauzionale, cioè quello che raccomanda in generale di non assumere più del 10% delle calorie giornaliere in grassi saturi. In altri termini, i nutrizionisti consigliano di leggere le etichette dei prodotti quando si fa la spesa, e di ridurre – non di eliminare – l’uso di quelli contenenti olio di palma.
Piantagioni sostenibili
Resta da dipanare la questione sui presunti danni ambientali causati dalla produzione intensiva di olio di palma. Anche qui, qualche dato aiuta a comprendere: benché il boom dell’olio di palma abbia spinto certi governi e multinazionali a tagliare in maniera dissennata ampie aree di foresta nella fascia tropicale per creare nuove piantagioni, è bene precisare che la palma da olio ha una resa media di 3,47 tonnellate per ettaro: 5 volte più della colza, 6 volte di più del girasole, 9 volte più della soia e, addirittura, 11 volte di più rispetto all’olio di oliva. Morale? La sua coltivazione è meno dannosa perché limita l’impatto ambientale.
La maggiore produttività di questa pianta (che, ricordiamo, fornisce il 35% dell’intera produzione mondiale di oli vegetali) permette di occupare solo il 6% delle terre usate per la produzione di oli vegetali: circa 17 milioni di ettari concentrati soprattutto in Malaysia, Indonesia, Africa e America Latina. Non solo. Oltre ad avere una maggiore resa per ettaro rispetto agli altri oli vegetali, l’olio di palma richiede meno fertilizzanti, pesticidi ed energia rispetto alla soia e alla colza.
Qualità certificata
In un mondo sempre più popolato e bisognoso di terre, quindi, le piantagioni di olio di palma appaiono più sostenibili. A condizione che siano gestite in modo responsabile. Come? Una rete di associazioni ambientaliste, capitanata da Greenpeace, ha promosso il Palm Oil Innovation Group, iniziativa che mira a spezzare il legame tra produzione dell’olio, deforestazione e negazione dei diritti dei lavoratori. Alcune aziende, tra cui l’italiana Ferrero, hanno scelto di utilizzare soltanto olio certificato Rspo (Roundtable on Sustainable Palm Oil), a beneficio dell’ambiente e dei braccianti.
Chiosa un portavoce del Wwf: «Il boicottaggio dell’olio di palma non rappresenta la soluzione del problema. Al contrario, non acquistare più olio di palma sostenibile porterebbe a conseguenze ancor più negative per l’ambiente e le comunità locali. Se le aziende acquistassero oli alternativi, dal momento che questi necessitano di molta più terra coltivabile, la loro scelta provocherebbe un aumento della deforestazione e della perdita di biodiversità».
(Marco Trovato)