di Marco Simoncelli
(Maputo)
«Abbiamo sentito un tuono! Pensavamo fosse il temporale invece era la frana che è scesa giù dalla montagna. Ora abbiamo paura». Anastasia è intenta a raccogliere buste di plastica, mentre racconta la tragedia avvenuta nelle prime ore del mattino di lunedì scorso nel quartiere Hulene di Maputo e finita su tutti i media internazionali. La «montagna» di cui parla è un’enorme discarica con cumuli di rifiuti alti 20 metri, che si staglia come un enorme tsunami sullo sfondo della sua casa e di quelle dei suoi vicini.
A causa delle incessanti piogge che hanno colpito la capitale del Mozambico nelle ultime settimane il gigantesco cumulo di spazzatura si è impregnato d’acqua fino a quando, da uno dei suoi versanti, è crollato e una valanga di fango nero nauseabondo ricolmo di rifiuti di ogni tipo ha inghiottito cinque case e provocato 17 vittime.
La discarica di Hulene, si trova ad appena 10 km dal ricco centro della città a poca distanza dall’aeroporto. Poco prima dell’indipendenza dal dominio portoghese negli anni Settanta, qui non abitava nessuno. Tutto era cominciato con una fossa dove venivano scaricati i rifiuti cittadini, ma nel corso degli anni si è trasformata nella montagna attuale e attorno ad essa si è formato un intero quartiere di circa 2000 abitanti, che vive proprio degli scarti che riesce a recuperare da quella spazzatura. Durante la guerra civile (1981-1994) la povertà e l’insicurezza hanno fatto arrivare in città migliaia di persone dalle zone rurali. L’urbanizzazione rapida e disordinata ha reso possibile la costruzione delle case a ridosso della discarica, che nel frattempo ha continuato a crescere senza freni per via della mancanza di sistemi e servizi per il trattamento dei rifiuti.
«Siamo arrivati senza niente e non trovavamo lavoro. Quando abbiamo scoperto che con la plastica e il ferro si potevano fare soldi, abbiamo cominciato a raccoglierli», afferma il Paulo Tomas che guida uno dei camion che trasporta le balle di plastica in città per rivenderle alle fabbriche. I «catadores» sono nati così. Dentro le mura delle discariche della periferia di Maputo sono tollerati, mentre fuori vivono ai margini della società, invisibili agli occhi dei politici: «Ci vedono come poveri falliti. Ma in realtà diamo un servizio alla città. Ricicliamo e ripuliamo».
Generalmente i «catadores» uomini guidano i camion o trasportano dei carrelli in giro per la città in cerca di vecchi rottami di ferro, mentre le donne e i ragazzi restano in discarica a raccogliere e setacciare fra i rifiuti. Con bocca e naso coperti da un fazzoletto per proteggersi dai fumi tossici della spazzatura putrescente, la signora Calda sta legando una balla di bottiglie di plastica mentre spiega come funziona questa misera economia informale.
«Per un kg di ferro ci danno 5 meticais (0,06 cent. di euro), per uno di bottiglie 8 meticais, mentre per le buste di plastica… dipende dal colore, ma si va da 1 a 3 meticais al kg – si asciuga la fronte sudata, poi continua – Per accatastare un kg di bottiglie può volerci mezza giornata. Per questo lavoriamo sempre per sopravvivere. Non esistono domeniche per noi. Qui non si può coltivare niente, quindi cibo e acqua vanno comprati nei mercati».
Dopo il disastro e la vergogna di lunedì, il governo ha deciso di spostare le persone che abitano a ridosso della discarica. Prima in un centro di accoglienza nel quartiere ferroviario, poi, forse, in altri sobborghi. «Vogliono mandarmi a Chiango – si lamenta la vecchia Rosita nel cortile della sua baracca – ma quel posto è lontano da qui e si allaga sempre. Io vivo sola con dieci figli e nipoti da mandare a scuola. So che è pericoloso vivere qui, ma se mi spostano come facciamo ad andare avanti?».
Fra le baracche di Hulene la gente vive 24 ore al giorno tra ratti, liquami, vapori fetidi e i fumi tossici provocati da piccoli incendi incontrollati che provocano malattie respiratorie e cancro, oltre all’inquinamento delle falde acquifere che causa spesso epidemie di dissenteria. Eppure paradossalmente spostare i «catadores» significa privarli del loro unico misero mezzo di sostentamento.
Giovedì si sono tenuti i funerali delle vittime tra la rabbia della gente e alla presenza dei principali media mozambicani. Le autorità del municipio si sono prese la responsabilità di ciò che è avvenuto, ma la discarica doveva essere chiusa da ormai da dieci anni. Durante la campagna elettorale che ha portato alla sua rielezione nel 2013, il sindaco David Simango aveva di nuovo promesso di chiuderla, ma nei quattro anni successivi l’immondezzaio ha continuato a ricevere più di mille tonnellate di rifiuti al giorno.
«Dell’incompetenza delle autorità non avevamo dubbi – ha scritto il direttore di Canal de Moçambique Fernando Veloso nel suo editoriale di giovedì -, ma nessuno pensava che sarebbe arrivata a uccidere dei mozambicani… Per giunta i più poveri e con la spazzatura».