«Il regista che ha fatto entrare il cinema africano nell’era moderna». «L’enfant terrible del cinema africano». Sono tante le possibili definizioni per Idrissa Ouédraogo, uno dei cineasti dell’Africa subsahariana più apprezzati e conosciuti a livello internazionale, che ci ha lasciato due anni fa. In tutte le sue opere, che qualcuno ha chiamato “parabole”, ha elaborato una profonda riflessione sul senso del filmare, raccontando storie percorse da una rinnovata libertà figurativa, espressione di un preciso contesto sociale e al tempo stesso di sentimenti universali. Utilizzando archetipi universali e sfuggendo a preconcetti estetici Ouédraogo è riuscito mostrarci l’immagine di un’Africa che forse prima nessun cineasta era riuscito a restituirci con tanta autenticità. Personalmente l’ho seguito con passione ed ammirazione fin dagli esordi e ci ha legato una profonda amicizia.
I primi lavori
Dopo aver studiato cinema a Ouagadougou, a Kiev e a Parigi, nei primi anni di attività come regista si è dedicato a cortometraggi che subito ne hanno rivelato il suo grande talento: debutta nel 1981 con Pourquoi? , film muto in cui un uomo sogna di uccidere la moglie. Nello stesso anno gira Poko, che descrive la carenza di strutture sanitarie nel suo Paese. Seguono Les Écuelles (Le ciotole, 1983) e altri corti ancora che sarebbe lungo elencare: Idrissa dimostra di saper raccontare piccoli gesti quotidiani e cerimonie tradizionali attraverso il linguaggio della poesia. Continuerà poi a raccontare l’Africa, ma con un taglio più politico: in particolare lo tocca l’esodo rurale nel Sahel, presente nel suo primo lungometraggio Yam daabo/Le Choix (La scelta, 1986), che parla di una famiglia costretta ad abbandonare il proprio villaggio a causa della siccità. Il film è un tributo alla rivoluzione di Thomas Sankara e sottolinea la necessità dell’indipendenza dell’Africa dagli aiuti economici internazionali.
Quelle discussioni fra giganti
Ricordo ancora le discussioni intorno alla piscina dell’Hôtel Indépendance di Ouagadougou, dove ci si radunava fino alle ore piccole insieme a tutti quelli che erano i più importanti registi in quel periodo epico della cinematografia africana, da Sembène Ousmane a Souleymane Cissé, e Idrissa che difendeva con convinzione il suo film, accusato da alcuni di discontinuità. Un cinema, il suo, che puntava alla modernità senza rinnegare le proprie radici culturali, come dimostra anche nel successivo Yaaba (La nonna, 1989), poetica storia del rapporto tra due ragazzi e un’anziana, accusata dagli abitanti del suo villaggio di essere una strega. Un messaggio che condanna la discriminazione e gli aspetti sbagliati della tradizione, tema ricorrente nella sua opera. Il film ha il merito di aprire la strada al cinema africano su scala internazionale.
La consacrazione
La definitiva affermazione avviene con Tilaï (La legge,1990) che si aggiudica, oltre al Grand Prix del Fespaco (Festival Panafricano del Cinema), il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes. Ricordo ancora le scene la sera della premiazione: Idrissa non aveva previsto l’abito scuro, né la camicia bianca, né il papillon, e io e sua moglie correvamo come pazze per cercare di procurargliele, mentre lui non se ne preoccupava minimamente! L’enfant terrible! Non conosceva formalità né diplomazia, e dopo aver detto cose terribili si faceva perdonare con la sua grande risata contagiosa.
L’Orso d’argento
Tilaï è una tragedia africana che racconta come gli affetti debbano sottostare alla durissima legge della tradizione. E Idrissa dimostra come sa parlare d’amore con grande naturalezza, senza tabù. Sono anni di grande creatività. In A Karim na Sala (1991) racconta la storia due adolescenti: una viene dalla città, l’altro vive in campagna, ma insieme scoprono l’amore. Poi un altro dei suoi capolavori riconosciuti internazionalmente: Samba Traoré (1993). Il protagonista, grazie a una rapina, torna ricco al paese di origine e si innamora della bella Tamarou, divorziata e con un figlio. Ma i peccati si pagano… E questa è un’altra delle “parabole” del Vangelo di Idrissa, che sembra costantemente volerci parlare di un sogno di felicità difficile se non impossibile a realizzarsi. Il film si aggiudica l’Orso d’argento a Berlino.
Le cri du coeur, un passo falso?
L’anno seguente gira la sua prima opera in Europa, Le cri du cœur (Il grido del cuore, 1994), che descrive le difficoltà di un ragazzino che lascia il Mali per raggiungere il padre in Francia. Il regista sfiora appena il tema del razzismo e si concentra sull’odissea interiore del piccolo protagonista che ogni notte sogna una iena, ricordandosi dei racconti del nonno lontano. Quest’esperienza “internazionale” viene da molti criticata: a me il film piace moltissimo perché dimostra una sensibilità nuova e più profonda. Seguono altri cortometraggi, tra cui Afrique, mon Afrique (1994) sul problema dell’aids.
Trucchi del mestiere
Un’altra sfida coraggiosa è rappresentata da Kini & Adams (1997), storia di un’amicizia maschile tra comicità e melodramma, girato in Sudafrica, con attori anglofoni, grazie a un’importante e innovativa coproduzione. Ricordo l’esperienza sul set del film, dove ero andata ad assistere alle riprese. Idrissa era concentrato e anche preoccupato, ma non abbastanza per rinunciare al suo humour. Irresistibili le sue battute, quando scherzava e rideva al bar con delle vere prostitute, attrici nei suoi film. Ma la sua capacità di mettere a proprio agio gli attori è straordinaria: lui e Djibril Diop Mambety, altro straordinario regista scomparso, mi dicevano un giorno come fraternizzare con i bambini protagonisti: basta far loro l’occhiolino, condividere una risata, e il gioco è fatto!
Gli ultimi anni
Una citazione merita la serie televisiva Kadi jolie (1999-2001), che riscuote un enorme successo, e l’episodio nella serie dei corti girati insieme ad alcuni dei registi più noti del mondo per ricordare la tragedia dell’11 settembre. Con una scelta originalissima Idrissa s’inventa un gruppo di ragazzini di Ouagadougou determinati a intascare la taglia per la cattura di Bin Laden che pensano di aver riconosciuto per le vie della città, ma la polizia non crede alle loro segnalazioni. L’anno successivo il regista gira il suo ultimo lungometraggio, La colère des dieux (La collera degli dei, 2003), che racconta la lotta contro le truppe coloniali francesi dell’ultimo re indipendente del Burkina. Film storico, ma totalmente diverso e lontano da qualsiasi opera appartenente a questo genere, un western e al tempo stesso un melodramma. Il film non è accolto con il solito entusiasmo: dopo la sua scelta di tornare a vivere in Burkina, Idrissa non è più l’enfant gaté dei francesi. L’ultima volta che l’ho incontrato, Idrissa mi parlava di crisi del cinema africano, di assenteismo delle istituzioni, del suo bisogno di una pausa di riflessione. Se n’è andato così, ma i suoi capolavori sono il suo testamento.
(Annamaria Gallone)