Nell’ultima settimana c’è stata un’impennata dei casi accertati di covid-19, che hanno raggiunto i 16.643, e anche dei morti, arrivati ad un totale di 278. Ci sono anche 7.574 guariti. Dall’inizio della pandemia sono anche aumentati i posti letto attrezzati con ventilatori, comunque largamente insufficienti se la situazione dovesse evolversi secondo le previsioni più negative.
La risposta è una crescita in solidarietà. Sabato l’Hindu Council of Kenya, che raggruppa tutte le associazioni della comunità di origine indiana e di religione indù (molti indiani sono musulmani, e c’è anche un piccolo numero di cattolici) ha organizzato una distribuzione di cibo e anche Koinonia è stata invitata: nella foto Jack Matika, debitamente mascherato, che ringrazia a nome di Koinonia.
Queste sono occasioni di concreto ecumenismo di base che sono più eloquenti delle grandi dichiarazioni. Le grandi dichiarazioni servono e indicano una direzione, tant’è che chi presiedeva la semplice cerimonia ha riecheggiato le parole di papa Francesco e al termine, salutandoci, mi ha detto di voler continuare ad aiutare Koinonia e visitare le nostre case. Le dichiarazioni devono essere vissute nella vita reale, altrimenti restano solo parole.
Koinonia in questi mesi ha accettato donazioni da cristiani di ogni confessione, da musulmani, da indù, da credenti nella religione tradizionale africana, e, immagino, anche da eretici, apostati, agnostici e atei. Non sono sicuro, perché al primo incontro non domandiamo la fede di appartenenza né a chi ha necessità né a chi si presenta per donare magari un semplice pacchetto di farina per polenta. Noi sappiamo che i nostri giovani ospiti sono di tante fedi diverse, ma la fame è uguale per tutti. Cosi come il dolore fisico e morale, la sofferenza per l’abbandono e l’emarginazione sono uguali per tutti. Il cibo condiviso non ha religione, è il più semplice e forte segno di fraternità.
Ieri, guardandomi in giro nel grande prato fuori dalla sede dell’Hindu Council, constatavo di essere non solo il più vecchio, ma anche il solo non-indiano e non-keniano. Certamente l’unico prete. Eppure a me pare la presenza in momenti come questi sia un modo per essere missionari.
Padre Renato Kizito Sesana è un missionario che vive tra Nairobi (Kenya) e Lusaka (Zambia), città dove ha avviato case di accoglienza per bambini e bambine di strada (si chiamano Kivuli, Tone la Maji, Mthunzi…) e molte altre iniziative principalmente rivolte ai giovani, rendendoli protagonisti (come la comunità Koinonia). È cofondatore della onlus Amani, che dall’Italia sostiene la sua opera. Da giornalista, ha sempre avuto una viva attenzione alla comunicazione, dapprima come direttore di Nigrizia, quindi fondando a Nairobi la rivista New People e rendendosi presente sui mezzi di comunicazione keniani e internazionali.