Sono da più di una settimana nella Koinonia di Lusaka (Zambia). Ci sono arrivato fisicamente molto stanco e dovendo osservare le due settimane in isolamento ho rallentato i ritmi, prendendomi molto tempo per leggere, anche online. Sono rimasto colpito constatando quanti amici laici cattolici – italiani soprattutto – manifestino opinioni livorose su fatti di Chiesa e interventi di preti e vescovi. Li capisco molto bene. Ma mi sembra anche che siano impegnati in un esercizio sterile.
Lusaka mi ha fatto ricordare alcuni momenti degli inizi di Koinonia, lezioni che mi hanno segnato a vita, insegnandomi ad essere sempre attento a valorizzare l’impegno dei laici.
Verso la fine del 1981 ero a Lusaka, avevo 38 anni, e mi pareva giunto il momento di consolidare l’esperienza comunitaria che avevo iniziato con sette o otto ragazzi ventenni che ospitavo nella piccolissima casa costruita dal missionario precedente nella parrocchia di Bauleni, la baraccopoli “al di là del cimitero”. Era considerato il posto degli esclusi, come lo è ancora oggi, ed oggi vi è presente un laico italiano, Diego Mwanza Cassinelli, seriamente impegnato in un lavoro di promozione umana integrale. Nel 1981 i ragazzi si domandarono: «Dove andremo in futuro? Non possiamo stare per sempre nella casa del prete». La diocesi possedeva a Bauleni ben 100 acri di terra e il vescovo era Emmanuel Milingo, che sarebbe diventato famoso dopo pochi anni per le sue attività di guaritore, e non solo. Andai dal vicario generale della diocesi, che era un missionario irlandese più giovane di me, gli spiegai che volevo trovare una sede per quella nascente iniziativa e gli chiesi come secondo lui avrebbe reagito Milingo se gli avessi chiesto di sistemare i ragazzi su in pezzetto di quella terra. Padre Taylor mi rispose che certamente Milingo mi avrebbe dato il permesso, perché mi stimava molto, ma aggiunse: «Però secondo me è meglio se vi cercate un vostro pezzo di terra e ve lo intestate come gruppo. Sai com’è, anche i vescovi cambiano parere, o magari ne arriva un altro con idee diverse. Se fra qualche anno ci sarà un vescovo con altre idee e altri progetti per quella terra e vi vorrà sloggiare vi trovereste nei pasticci». Cercammo. Dopo meno di un anno avevamo ricevuto in dono da una signora i cento acri che sono ancora oggi la sede di Koinonia. La famiglia Goodfellow aveva lasciato il Sudafrica in protesta contro l’incarceramento di Mandela. Il marito allevava cobra e serpenti vari per estrarne e commercializzarne il veleno ed era morto alcuni mesi prima. Due figli erano diventati preti anglicani.
Altri 4 anni, e due dei ragazzi si erano sposati. La piccola comunità di laici – insegnanti, contadini, falegnami – si stava ulteriormente consolidando ed io, ancora sotto gli effetti della mentalità clericale che avevano disperatamente cercato di inculcarmi durante la formazione, mi posi il problema di far in qualche modo registrare l’iniziativa nella Chiesa locale. Volevamo una “carta” dal vescovo. Milingo e il suo profetico vicario generale erano stati trasferiti, allora andai a chiedere un parere ad un gesuita, anche lui irlandese, che era incaricato dell’ufficio laici nel segretariato della Conferenza episcopale zambiana. Padre Cremins mi ascoltò attentamente e alla fine disse più o meno: «Ma chi ti ha detto che per fare qualcosa di buono bisogna farlo registrare da un vescovo secondo qualche canone del diritto canonico? Certo per operare avete bisogno di una personalità giuridica. Registratevi come fondazione qui in Zambia e andate avanti così, e che Dio vi benedica». E così fu. Koinonia fu registrata in Zambia come Charitable Trust o Fondazione.
Da allora non mi posi più il problema della registrazione di Koinonia, e quando re-iniziai in Kenya ci facemmo semplicemente registrare come Charitable Trust secondo le leggi del Paese. In Sudan e Sud Sudan gli stravolgimenti provocati dalla divisione del Paese e dai successivi eventi sanguinosi hanno fatto fallire – finora – i nostri tentativi di registrazione.
I problemi sia in Zambia che in Kenya non sono mancati, nati da nostre incapacità e anche da interferenze esterne, ma sono stati risolti nei termini delle leggi dello stato che valgono per tutti i comuni mortali. Il diritto canonico invece ha procedure non trasparenti, nelle quali la stessa autorità ha anche funzione di investigatore, di pubblico ministero e di giudice. È un segno del ritardo che la Chiesa ha rispetto al mondo, anche se papa Francesco sta lentamente ma testardamente muovendosi per accorciarlo. Diciamo che il diritto canonico è fondato sul presupposto che tutti coloro che sono nella linea di autorità siano capaci di gestire la comunità e i conflitti con sapienza e amore. Però se in quella linea c’è chi non ha né sapienza né amore allora il diritto canonico può diventare uno strumento che soffoca creatività e libertà.
Ho imparato che non bisogna lasciarsi soffocare. Ho imparato che i laici cristiani hanno molti più spazi di quanto credano, anche all’interno della Chiesa. Bisogna avere il coraggio di osare il nuovo e rischiare il fallimento. D’accordo, il contesto in cui Koinonia si è mossa è molto diverso dal contesto italiano. Abbiamo trovato difficoltà diverse e maggiori opportunità. Ma in Italia i laici sono più preparati professionalmente, hanno una adulta consapevolezza dei loro diritti, sanno distinguere meglio i sermoni intelligenti dagli sproloqui. Perché perdere tempo ed amareggiarsi la vita in brontolamenti, lagnanze e sarcasmi sulle inadeguatezze del clero?
– Oggi è stata, comunque, una giornata in pieno stile clericale. Al mattino abbiamo posizionato la lastra di marmo sulla base di mattoni cotti dell’altare all’aperto [foto], sotto la cappellina della “Nostra Signora di Koinonia”. Trasformando un angolo che avevamo trascurato per tanti anni in un luogo di quieta preghiera. Vi abbiamo celebrato messa al tramonto, terminandola nel buio e nel silenzio più profondo, quando i canti degli uccelli si erano chetati, e si sentivano solo i rumori degli insetti notturni.
Padre Renato Kizito Sesana è un missionario che vive tra Nairobi (Kenya) e Lusaka (Zambia), città dove ha avviato case di accoglienza per bambini e bambine di strada (si chiamano Kivuli, Tone la Maji, Mthunzi…) e molte altre iniziative principalmente rivolte ai giovani, rendendoli protagonisti (come la comunità Koinonia). È cofondatore della onlus Amani, che dall’Italia sostiene la sua opera. Da giornalista, ha sempre avuto una viva attenzione alla comunicazione, dapprima come direttore di Nigrizia, quindi fondando a Nairobi la rivista New People e rendendosi presente sui mezzi di comunicazione keniani e internazionali.