Oggi in Kenya si registrano 32 morti dall’inizio della pandemia da Covid-19. Inizio che ha quasi coinciso con le prime piogge di una lunga e violenta stagione che ha già causato inondazioni, frane, crolli con oltre 200 morti e 230.000 sfollati. Centinaia di pescatori che abitavano su isole nel Lago Vittoria, secondo al mondo come superficie, sono stati evacuati con le loro famiglie perché l’alzarsi del livello delle acque le sta sommergendo. A Mwewa, distretto di produzione agricola, oltre 3.200 ettari di riso ormai pronto al raccolto sono stati persi, sott’acqua. In contrasto, lo scorso anno era iniziato con una siccità che nel Nord-est del Paese aveva causato la morte di decine di migliaia di capi di bestiame e portato 3,5 milioni di persone sull’orlo della fame. Oggi, la stessa area – che comprende anche una vasta parte di Etiopia e Sud Sudan – sta subendo un’invasione di locuste, la peggiore negli ultimi 70 anni, e ancora non si sa come si evolverà. Nonostante tentativi di controllo con aerei che irrorano insetticidi sugli sciami, sembra addirittura che in questi giorni ci sia una pausa solo perché stanno deponendo le uova.
Questo breve elenco di fatti potrebbe iniziare a spiegare perché il Covid-19 non fa poi così tanta paura in Kenya, e generalmente in Africa. Qui i disastri – naturali o causati dall’insipienza e dall’avidità umana – si susseguono senza sosta. Aggravati dallo sconsiderato, criminoso sfruttamento delle risorse naturali che le compagnie internazionali hanno accelerato negli ultimi decenni. Per non dire dallo sfruttamento delle persone. Non c’è quindi da meravigliarsi se “solo” 32 morti in due mesi non suscitano tanto allarme, e la gente, nonostante il coprifuoco e tante altre restrizioni, cerca di continuare la vita normale, anche rischiando e aggirando le disposizioni governative.
Come fanno gli africani a sopportare il susseguirsi di tante disgrazie? Fatalismo? Le generalizzazioni sono sempre pericolose, ma se fatalismo significa abbandonarsi al destino, subendolo senza reagire, credo che sia un atteggiamento alieno all’animo umano in ogni parte del mondo e in ogni cultura. Qui in Africa in modo particolare. Bisognerebbe essere ciechi, o accecati dai pregiudizi, per non vedere la grande voglia di impegnarsi per la vita.
In questi giorni lo vedo nei ragazzi più grandi che abbiamo riscattato dalla strada due settimane fa. I primi giorni sono stati facili, ma poi sono arrivate le crisi di astinenza, le crisi di autostima, sono ritornati gli incubi vissuti sulla strada in condizioni quasi subumane. Eppure finora abbiamo visto che sono capaci di reagire, e in loro si rimette in moto tutto l’amore per la vita che hanno dentro.
È la stessa forza che ogni mattina fa alzare del letto, o dalla stuoia, o dalla coperta stesa sul pavimento le migliaia e migliaia di persone che alle 5:01 del mattino, appena finisce il coprifuoco, sono in strada per andare a lavorare, o a cercare lavoro occasionale, per poter dar da mangiare ai figli. Stamattina a quell’ora ero anch’io in strada, ma in auto, e nella fila di persone in cammino verso la più vicina stazione di matatu ho riconosciuto la sagoma corpulenta di Eddy. Mi son fermato, gli ho chiesto se voleva stringersi con gli altri sul sedile posteriore, e nel tragitto mi ha raccontato che andava al mattatoio per cercare carne a buon prezzo da cuocere e rivendere in una bancarella gestita dalla moglie. Eddy è laureato in marketing, ha figli già grandi, e fino a sei settimane fa dirigeva il magazine interno di una grossa compagnia.
Una forza che nasce anche dalla fede. Dio è sempre presente. Dio è sempre l’autore del bene, anche quando il male sembra prevalere. La preghiera è sempre parte della vita quotidiana. Eddy dice: «In casa preghiamo il cardinale Otunga (vescovo di Nairobi dal 1971 al 1997, del quale è in corso la causa di beatificazione) che interceda per noi». Una fede troppo ingenua, superstiziosa, medioevale, come direbbero tanti “illuminati” europei?
A proposito di fede. In questi giorni di ramadan, Salmin, lo studente musulmano che da qualche mese fa da mio assistente e autista, ne sta rigorosamente seguendo le prescrizioni. Lo conosco dal 2005, quand’era un bimbo di 7 anni, perché la sua famiglia viveva non lontano dal nostro centro di prima accoglienza Ndugu Mdogo, a Kibera. Ieri gli ho raccontato quanto avevo letto online su Silvia Romano.
Del caso di Silvia/Aisha la stampa keniana aveva riportato poco, e ieri la sua liberazione ha meritato solo un articoletto veloce. In passato, e anche in questi giorni, sono stato sollecitato a dire il mio parere. Mi sono sempre rifiutato prima perché non conoscevo la onlus che l’ha mandata a Chakama e le vere circostanze del rapimento, e poi temevo che fosse successo il peggio. Adesso non ne parlo perché continuo a non conoscere bene i fatti e penso che la vicenda sia così complessa che per rispetto a Silvia e alla famiglia la cosa migliore sia di fare silenzio. Anzi sarebbe bene se l’odioso circo mediatico chiudesse subito lo show che le stanno creando intorno.
Ma torniamo a Salmin. La sua reazione ai commenti italiani alla liberazione di Silvia/Aisha è stata un sereno «Dio è grande. Sarà solo Lui a giudicarci». Ma, mi son domandato, quanti fra quelli che da tutte le diverse posizioni politiche e religiose scrivono su Silvia/Aisha, manipolano la sua vicenda e la sua persona, credono ancora al giudizio di Dio? Roba da Medioevo.
Padre Renato Kizito Sesana è un missionario che vive tra Nairobi (Kenya) e Lusaka (Zambia), città dove ha avviato case di accoglienza per bambini e bambine di strada (si chiamano Kivuli, Tone la Maji, Mthunzi…) e molte altre iniziative principalmente rivolte ai giovani, rendendoli protagonisti (come la comunità Koinonia). È cofondatore della onlus Amani, che dall’Italia sostiene la sua opera. Da giornalista, ha sempre avuto una viva attenzione alla comunicazione, dapprima come direttore di Nigrizia, quindi fondando a Nairobi la rivista New People e rendendosi presente sui mezzi di comunicazione keniani e internazionali.