di Federico Monica
In Africa i centri urbani sono anche spazi simbolici, spesso evidenti unicamente a chi le conosce da dentro e non solo sotto il profilo strettamente funzionale. Non tutto si può vedere, non tutto si può comprendere: le città africane ci insegnano anche questo
Agli inizi del Novecento l’antropologo tedesco Leo Frobenius riporta il rito di fondazione di un villaggio mandé, nel nord dell’attuale Costa d’Avorio: in una notte di quarto di luna un toro viene guidato a compiere una serie di cerchi concentrici intorno a quello che sarà il perimetro del nuovo insediamento per poi essere sacrificato e sepolto. Quel punto, al centro del villaggio, diviene un luogo sacro per la comunità.
Riti arcaici che accomunano gran parte delle civiltà del mondo a partire dalla fondazione di Roma e che raccontano come più degli aspetti tecnici e funzionali siano gli elementi sacri e rituali a guidare la nascita ma anche la forma originaria di città e insediamenti umani.
Sul rapporto fra morfologia dei villaggi e cosmologia o religione si sprecano teorie e ricerche estremamente affascinanti, anche se non sempre attendibili, in cui l’Africa è da sempre un caso studio privilegiato.
Uno degli esempi più noti è quello di molti villaggi dogon, la cui forma a ovale allungato secondo la mitologia richiama la forma antropomorfa, con altari, piazze e spazi del sacro a evidenziare testa, mani e piedi. Per un occhio poco abituato al simbolismo come quello occidentale leggere una figura umana in questi agglomerati di case richiede un notevole sforzo di fantasia, ma è indubbio che l’orientamento e la disposizione di amuleti o feticci determinano lo spazio fisico ben più di ciò che è concreto e tangibile.
Altre forme tradizionali come quelle circolari dei Kraal zulu o radiali delle città yoruba vanno oltre alle semplici esigenze di adattamento, gestione del bestiame o difesa delle comunità, e riflettono nello spazio urbano una peculiare visione del mondo e della società.
L’importanza degli aspetti religiosi e sacri o comunque legati alla sfera della spiritualità va però ben al di là della morfologia di villaggi e città o dei rapporti e gerarchie fra gli spazi: in molti casi, infatti, dietro l’apparente ordinarietà di strade ed edifici si nascondono elementi invisibili ai non iniziati altrettanto fondamentali nello sviluppo e nella vita delle società urbane.
Nel 1947, in seguito a una grande alluvione le autorità francesi decisero di ricostruire la città di Tibiri, nel sud del Niger, secondo un moderno schema razionalista con boulevard a ventaglio che convergono su una grande piazza.
Alcuni anni dopo, il geografo Guy Nicolas scoprì come la popolazione della città avesse ricostruito uno spazio simbolico invisibile interrando talismani e piantando alberi in corrispondenza delle porte e del punto centrale della città antica; sotto l’impianto urbanistico occidentale, basato su efficienza e funzionalità, sopravvive uno spazio sacro e spirituale, non percepibile ma altrettanto importante. Non a caso ancor oggi in quei luoghi sono presenti alberi e non sono state realizzate costruzioni.
Anche nelle grandi metropoli, nonostante le colate di cemento, i tappeti di lamiere e l’inesorabile secolarizzazione delle società urbane, si celano luoghi considerati carichi di energie soprannaturali; spesso si tratta di grandi alberi sempre più rari, di sorgenti o corsi d’acqua, ma anche di luoghi normalissimi come case o incroci di strade.
Un giorno, camminando insieme a due amici per le stradine polverose di una cittadina nel nord della Sierra Leone, uno mi afferrò improvvisamente per un braccio: «Non passiamo di lì! È un luogo degli spiriti, meglio cambiare strada». L’altro, giovane studente di ingegneria all’Università di Freetown, iniziò subito a deriderlo per quelle superstizioni irrazionali e retrograde, cercando un mio cenno di approvazione.
Sorrisi ma stetti zitto: non tutto si può vedere, non tutto si può comprendere, le città africane ci insegnano anche questo.