Prosegue la serie di articoli sull’inchiesta nota come Pandora Papers, relativa a operazioni di frode fiscale o corruzione, realizzata dal Consorzio dei giornalisti investigativi (Icij): dopo aver dedicato il primo approfondimento alla Nigeria e ai politici del principale Paese dell’Africa occidentale coinvolti negli affari offshore nascosti, volgiamo ora lo sguardo dall’altra parte del continente e più precisamente in Kenya, dove al centro dello scandalo è finito il presidente della Repubblica in carica, e figlio del padre dell’indipendenza del Paese e a sua volta primo presidente keniano, Uhuru Kenyatta.
Benché infatti il presidente Kenyatta abbia fatto della lotta alla corruzione la propria bandiera politica e, proprio nel corso del suo ultimo discorso sullo stato della nazione pronunciato lo scorso autunno, abbia dichiarato dal massimo scranno del Parlamento di Nairobi che troppi cittadini keniani vivono in povertà mentre troppi funzionari pubblici depredano le risorse del Paese, i documenti rivelati dall’Icij avrebbero mostrato che la famiglia Kenyatta accumulava ricchezze all’estero. Secondo i documenti ottenuti dall’Icij, Kenyatta insieme a sua madre, le sue sorelle e suo fratello hanno goduto dell’assistenza dello studio legale panamense Aleman, Cordero, Galindo & Lee (Alcogal) per proteggere i propri beni stimati in un valore superiore a 30 milioni di dollari attraverso fondazioni e società nei paradisi fiscali, tra cui appunto Panama.
I documenti mostrano che la famiglia Kenyatta utilizzava società anonime, di cui due registrate a Panama e cinque a nelle Isole Vergini britanniche, per amministrare i propri beni tra cui una casa nel centro di Londra e portafogli di investimento per decine di milioni di dollari. In un articolo di approfondimento firmato da Will Fitzgibbon, coordinatore dell’Icij per l’Africa e il Medio Oriente, si afferma che la ricchezza offshore dei Kenyatta rivelata dai Pandora Papers rappresenta solo parte di un patrimonio familiare stimato dalla rivista Forbes nel 2011 in circa mezzo miliardo di dollari e accumulato in un Paese dove lo stipendio medio annuo è inferiore a 8.000 dollari all’anno.
La famiglia ha cominciato ad accumulare gran parte delle proprie ricchezze offshore quando Uhuru era ancora una stella nascente della politica keniana. I documenti rivelati dall’Icij dimostrano infatti che due società offshore sono state create all’inizio degli anni Duemila, quando il giovane Kenyatta era il delfino dell’allora presidente Daniel arap Moi, in carica dal 1978 e succeduto nel ruolo proprio a Jomo Kenyatta, padre di Uhuru. La scoperta che Kenyatta e la sua famiglia possiedono fondazioni e società di comodo per evitare di dichiarare al fisco le proprie ricchezze fornisce un contrasto stridente con l’immagine che il presidente keniano cerca di proiettare come sostenitore della trasparenza. Anzi, i documenti mostrano come l’espansione delle attività offshore dei Kenyatta e l’aumento degli strati di segretezza per proteggere tali attività abbiano in realtà proprio coinciso con l’ascesa politica di Uhuru, mentre pubblicamente Uhuru cercava di consolidare la propria immagine come uomo del popolo.
Le ricchezze della dinastia Kenyatta iniziano chiaramente con la carriera di Jomo Kenyatta, che sarebbe diventato uno dei leader più iconici dell’Africa post-coloniale. Jomo negoziò l’indipendenza del Kenya dal Regno Unito nel 1963 e l’anno successivo ne divenne il suo primo presidente. Tuttavia, invece di una vera e propria democrazia, la nazione modellata da Kenyatta si trasformò rapidamente in uno Stato a partito unico segnato da detenzioni arbitrarie, torture e omicidi politici. La riforma agraria promessa durante la lotta d’indipendenza si trasformò in uno scippo ai danni dei keniani con le proprietà terriere che erano semplicemente passate di mano dalle élite europee agli accoliti di Kenyatta.
Una commissione delle Nazioni Unite avrebbe poi scoperto che nei due anni successivi l’indipendenza, un sesto di tutte le proprietà precedentemente detenute dagli europei, comprese “vaste fattorie” e preziose proprietà immobiliari costiere, erano state “vendute a buon mercato” a Kenyatta, alla sua famiglia e ai suoi alleati politici. Un rapporto pubblicato nel 2013 della Commissione verità, giustizia e riconciliazione del Kenya precisa che i beneficiari includevano la quarta moglie di Kenyatta, Ngina, i loro figli, (tra cui Uhuru) e Moi, all’epoca vicepresidente del Kenya. In breve, la fase dell’accumulazione originaria delle ricchezze di quella che può essere definita forse la più importante dinastia politica dell’Africa orientale.Dopo la morte di Jomo Kenyatta nel 1978, Moi ha assunto la presidenza che conserverà fino al 2002 e durante questo periodo, protetti dai legami con lo stesso Moi e dall’aura di Jomo come padre della nazione, i Kenyatta prosperarono e grazie alle vaste proprietà terriere e al sostegno di investitori internazionali costruì un impero commerciale, acquisendo partecipazioni in numerose imprese keniane, incluso il settore dei media e quello bancario.
La reazione di Uhuru alle scottanti rivelazioni dei Pandora Papers è stata immediata, annunciando una risposta “esauriente” non appena tornerà alla fine di questa settimana da una visita di Stato nelle Americhe. “Questi rapporti – ha dichiarato Kenyatta in una nota inviata lunedì alla stampa facendo riferimento ai Pandora Papers – contribuiranno notevolmente a migliorare la trasparenza e l’apertura finanziaria di cui abbiamo bisogno in Kenya e in tutto il mondo. Il movimento di fondi illeciti, proventi di reato e corruzione prosperano in un ambiente di segretezza e opacità. I Pandora Papers e i successivi audit solleveranno quel velo di segretezza e opacità per coloro che non possono spiegare i loro beni o la loro ricchezza”. Tuttavia, sono gli stessi media keniani che riportano le parole del presidente Kenyatta a sottolineare come la sua dichiarazione non affronti in alcun modo le accuse specifiche mosse contro la sua famiglia sulla base dei documenti resi noti dall’Icij.