Un sacerdote della Comunità Missionaria di Villaregia, presente nella capitale Ouagadougou, descrive alcuni aspetti della situazione del Paese oggi e della sua Chiesa, «segnata dall’evangelizzazione dei Padri Bianchi».
Come spieghi la vicenda delle infiltrazioni e del terrorismo di cui sentiamo parlare in Italia?
Tra i problemi emersi negli ultimi anni c’è lo svilupparsi di gruppi terroristici armati di stampo estremista islamico, gruppi che tendono a insediarsi nel Sahel, la fascia ai bordi del Sahara che attraversa vari Stati. Le cause sono molteplici.
Da una parte c’è l’impoverimento del territorio, con la tendenza alla desertificazione; le risorse naturali scarseggiano e la gente cerca altre fonti di reddito, aprendosi anche alle proposte di arruolamento nei gruppi armati. Dall’altra c’è uno spostamento delle basi dei gruppi terroristici dal Medio Oriente, dalla guerra di Siria e da altri conflitti: al-Qaeda e lo Stato Islamico hanno dovuto rilocalizzare i loro quartieri generali e hanno trovato nel Sahel un luogo adatto allo scopo.
Il terrorismo in Burkina Faso non ha una strategia unica: ha seminato paura nei villaggi di confine, dove spesso l’amministrazione statale è stata cacciata o ha preferito abbandonare il luogo per motivi di sicurezza; molti villaggi sono perciò senza autorità civili, senza scuole, né centri medici. Altre volte il terrorismo ha colpito nella capitale, nei quartieri ricchi, quale segno della capacità di turbare la tranquillità dei benestanti e degli stranieri che vengono per affari.
Ultimamente, da aprile di quest’anno, il terrorismo ha colpito i cristiani durante il culto; questo sembra un segnale voluto per sottolineare fortemente la matrice islamica degli attentati e per fare più effetto in Occidente, perché ormai i “normali” attacchi terroristici locali non facevano più notizia nei nostri distratti mezzi di informazione occidentali, più preoccupati di allertare sull’arrivo di gente dall’Africa che di spiegare perché questa gente emigra.
Quando gli attentati provocano la morte di “gente comune”, tra cui molti musulmani e anche imam cosiddetti “moderati”, ossia che credono nella possibilità di una convivenza pacifica, non fa molta notizia in Occidente; ma quando si attaccano i cristiani in quanto cristiani, durante l’esercizio del culto, uccidendo preti, pastori, catechisti, allora si risveglia un po’ di più d’interesse.
È dunque questa una delle strategie che il terrorismo sta seguendo, ma non l’unica; vari attentati non sono rivendicati perché, con buona probabilità, i gruppi terroristi si alleano con delinquenti “comuni” o con unità che vogliono la destabilizzazione del potere per motivi di opposizione politica. Questo diventa un miscuglio esplosivo: c’è chi cerca soldi, chi cerca potere, chi il controllo del territorio nelle zone di confine (sulla rotta del commercio di armi e di droga da e verso la Libia e l’Europa), chi vuole affermare la propria ideologia.
Puoi brevemente descrivere le espressioni religiose della gente del tuo territorio, qual è e come si pone la presenza cattolica in mezzo ad esse? Quali i rapporti ecumenici e interreligiosi?
Il panorama religioso dell’Africa subsahariana è sempre complesso. La penetrazione dell’Islam è plurisecolare; esso è arrivato tramite le carovane di commercianti arabi che attraversavano il deserto. Il cristianesimo è arrivato invece da poco più di un secolo, in occasione della penetrazione coloniale negli entroterra.
Ma il substrato è rimasto quello di una religiosità tradizionale, che attribuisce molta importanza alle forze della natura, a presenze soprannaturali che influenzano o determinano la vita degli umani. I cristiani considerano ormai queste credenze come superstizioni, ma quando si presentano difficoltà nella loro vita, soprattutto se più di una se ne presenta contemporaneamente, è ovvio che si interroghino: se ho perso il lavoro, mio figlio si è ammalato e pure la ruota della moto è bucata… ci sarà qualcuno che vuole farmi del male? O sarà perché ho rifiutato di partecipare al sacrificio cultuale che la mia famiglia ha organizzato al villaggio?
Poiché la vita nel nostro tempo è via via più complessa, domande come queste saranno sempre possibili e l’evangelizzazione dovrà continuare a fare i conti con questo modo di pensare.
In Burkina Faso più di metà della popolazione si professa musulmana; le percentuali cambiano molto in funzione delle etnie, alcune delle quali sono esclusivamente musulmane. L’Islam tradizionale ritma la vita della gente, con gli appelli del muezzin che risuonano a partire dalle 4.30 del mattino, i flussi di persone che vanno alla moschea o i gruppetti che pregano per strada, ragazzi o adulti che chiedono l’elemosina facendone un mestiere.
C’è poi l’avanzare di un Islam più radicale, per effetto del quale si vedono donne completamente vestite di nero, col velo che lascia spuntare solo gli occhi, uomini che non salutano gli sconosciuti e vengono meno alla tradizione dell’accoglienza rispettosa; aumentano le scuole coraniche che insegnano l’arabo, proliferano le moschee di varie tendenze. Mentre l’Islam tradizionale afferma una convivenza pacifica lunga di secoli, quello più fondamentalista è caratterizzato da una certa chiusura al suo interno; ciò è preoccupante: i cristiani hanno timore di avvicinarsi a questo tipo di musulmani.
Tra i cristiani, i cattolici sono la netta maggioranza; la denominazione evangelica più diffusa e strutturata sono le “Assemblee di Dio”, caratterizzate da un deciso attacco al feticismo in vista dell’adesione all’unico Signore Gesù e dalla promessa di una vita prospera sotto la benedizione di Dio.
Questo secondo aspetto le rende molto attraenti per la gente, che, se viene dai cattolici, si sente dire che Gesù proclama beati i poveri… e non promette loro ricchezza! Ci sono poi altre denominazioni, Chiese o sette, quasi tutte per lo più ancora imperniate sul proselitismo tramite un’aggressiva critica a vari aspetti del cattolicesimo, spesso travisati, con argomenti rimasti a ciò che si diceva in Europa nel XVI secolo. Ciò rende il dialogo, l’ecumenismo, pressoché impraticabile, anche se sempre possibile in casi individuali.
A causa dell’avanzare del terrorismo di matrice islamica radicale, la Chiesa cattolica si rende conto che mantenere un dialogo il più possibile ampio tra le religioni è estremamente importante; si stanno investendo risorse nel creare commissioni di dialogo islamo-cristiano, soprattutto valorizzando il fatto che sono numerosi i matrimoni fra persone di fede diversa, per cui l’aspetto della convivenza è all’ordine del giorno. Essa, però, non è mai scontata.
Il Burkina è sicuramente un Paese “povero” e tu ti trovi a vivere tra i poveri del mondo: come vedi le questioni delle povertà e dello sviluppo e, rispetto a queste, come si pone la “missione” del tuo Istituto?
Non sapere cosa mangiare, cosa dare ai propri figli, come curarsi, essere impossibilitati a garantire un minimo di istruzione e non avere la possibilità di ricorrere ad aiuti di assistenza sanitaria e sociale… tutto questo è il dramma di tante famiglie africane. Ma sono stati fatti anche qui molti progressi: nella nostra missione è difficile vedere qualcuno che letteralmente “muore di fame”, pur essendo ancora numerosi i malnutriti.
La povertà però presenta un altro volto drammatico, che è quello della disuguaglianza. Ogni anno in tutto il mondo aumenta il divario tra ricchi e poveri e anche in questo Paese la forbice si fa sempre più visibile. Per fare un esempio: da poco abbiamo iniziato un’attività di microcredito e abbiamo organizzato una formazione per donne che fanno piccole attività di commercio e che richiedono un prestito di 70-80 euro da restituire in un anno; gli esperti che impartiscono questa formazione possono chiedere 2000 euro al giorno di onorario.
In pratica, in un’ora di lavoro guadagnano quello che una povera donna spera di mettere da parte in tre anni, e noi che organizziamo il microcredito spendiamo in una settimana di formazione la stessa cifra che ci permetterebbe di finanziare quasi 200 donne per un anno. Per quanto queste donne possano poi migliorare la loro condizione di vita, è evidente l’abisso che le separa da coloro che sono stati loro formatori.
Poi c’è l’impoverimento dovuto ai problemi ambientali. Sappiamo quanto l’avanzare dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici metta a rischio quel po’ di progressi che si sono potuti realizzare fin qui; i Paesi più poveri sono anche quelli più colpiti da questi problemi che sono causati principalmente altrove, e per di più hanno meno mezzi per farvi fronte.
Anche questa è un’ingiustizia enorme che va combattuta su tutti i fronti, dallo stile di vita individuale – anche il povero, evidentemente, ha la tendenza a scimmiottare il peggiore dei comportamenti del ricco! – alle decisioni politiche a livello mondiale.
Per questo noi cerchiamo di lavorare a livello della formazione, per cambiare la mentalità, e, contemporaneamente, dell’azione, coinvolgendo le realtà socio-politiche locali. In Burkina Faso è forse più facile che altrove, per l’esistenza di un piano di sviluppo sostenibile a livello nazionale che permette di inserirsi in una rete di azioni che vanno nella stessa direzione.
Nello stesso tempo è importante far giungere la nostra voce di missionari fino al Paese da cui siamo partiti; essendo la nostra un’esperienza di “prima linea”, godiamo comunque di un certo ascolto e rispetto, come sottolineano spesso gli ambasciatori italiani.
Qual è la situazione della Chiesa e del clero locale autoctono?
La Chiesa in Burkina ha una storia di poco più di un secolo, ed è segnata dall’evangelizzazione operata dai Padri Bianchi (Missionari d’Africa). Essi hanno dato un’impronta basata sull’annuncio del vangelo da parte dei laici, dei catechisti, che sono stati formati come guide di comunità disperse e difficilmente raggiungibili dal clero.
Poi, 40 anni fa, è stata fatta un’altra scelta fondamentale: strutturare la Chiesa come grande famiglia, a partire dalle comunità di base, nelle quali si può sperimentare un volto di Chiesa a dimensione familiare (la categoria di “Chiesa famiglia di Dio” è stata assunta anche a livello continentale dal Sinodo del 1994).
In questo modo la Chiesa è di tutti, chiunque vuole dare il suo contributo trova un posto, si distribuiscono numerosi incarichi legati al funzionamento di ogni gruppo, ognuno può sentirsi a suo modo protagonista. Il pericolo è che quello che è nato come novità dopo un po’ di tempo tenda a standardizzarsi e finisca in un fissismo che lascia poco spazio alla creatività e che racchiude tutto in una tradizione ingessata.
Riguardo al clero e ai consacrati, ho trovato una bella collaborazione fraterna. Anche qui l’impronta data dai Padri Bianchi è chiara: tutte le parrocchie sono rette da comunità di preti, per cui la fraternità è innanzitutto testimoniata dall’équipe presbiterale. Molti sono anche i religiosi che cooperano nella pastorale o hanno varie opere sociali.
Il clero locale non è ancora numeroso, ma è in graduale crescita. Qui funziona ancora bene il seminario minore; i ragazzi cominciano già a 8-9 anni a manifestare il loro desiderio di diventare prete o suora; naturalmente ci vuole un lungo cammino per verificare questo desiderio, ma la strada della donazione a Dio non è vista in modo discriminante da parenti e amici.
La pastorale segue delle linee direttive abbastanza chiare a livello diocesano, con un piano pastorale programmato su cinque anni, articolato in obiettivi strategici e attività da realizzare ai vari livelli. In questo modo, chi vuole darsi da fare sa in che “direzione remare”. Per coloro che operano nei vari ambiti pastorali, siano essi laici o consacrati, sono previste formazioni curate dalla diocesi.
Anche l’economia è oggetto di attenta cura, con trasparenza del bilancio e formazione degli operatori.
La Caritas si è via via strutturata a livello nazionale come organizzazione per lo sviluppo, non limitandosi ai soli aiuti di emergenza, ma facendosi promotrice di progetti di sviluppo su tutto il territorio.
Come vedi la prospettiva dell’autonomia della Chiesa cattolica locale dalle Chiese occidentali (e italiana in particolare)?
Il termine “autonomia” si presta a varie interpretazioni, e si gioca su diversi aspetti. Se parliamo di autonomia economica, questa è da augurarsi, senza però dimenticare che la Chiesa dovrebbe dare l’esempio a livello mondiale di solidarietà nella equa distribuzione della ricchezza.
Se parliamo di autonomia in altri settori, secondo me ci sono termini più adatti a esprimerla; per esempio si può parlare di rispetto delle diversità all’interno della comunione ecclesiale. Qui in Burkina Faso, ad esempio, nella liturgia, che pure è rigorosamente romana, emergono tutte le caratteristiche della cultura locale, senza che ci sia una pretesa di “autonomia liturgica”.
Spesso coloro che curano la liturgia sono “più romani di Roma”, ma poi l’espressione culturale di un popolo emerge da tutte le parti, e un minimo di senso pastorale rispetta queste espressioni quando esse sono conformi allo spirito del mistero che si celebra.
In altri campi, come quello della dottrina, ma soprattutto della morale e dell’impegno nella società, è evidente che si tratta di modellare gli orientamenti universali sulle problematiche locali; le Conferenze episcopali nazionali e regionali giocano tutto il loro ruolo.
A mio parere la tendenza attuale è dunque prevalentemente quella di sentirsi legati a Roma e di fare le cose il più possibile come vengono richieste a livello centrale; non mancano comunque anche sensibilità opposte, ma per il momento non mi sembra si arrivi a particolari conflitti.
A cura di Giordano Cavallari per SettimanaNews
Don Paolo Motta nasce a Sermide il 6 gennaio 1966. Durante il servizio civile alla Caritas diocesana vive un’esperienza forte di impegno verso gli ultimi. Conosce la Comunità Missionaria di Villaregia (Cmv), presso la quale discerne la propria vocazione e, lasciati lavoro e studi musicali, entra in Comunità il 23 settembre 1987. Terminati i primi studi di Teologia a Padova e la licenza in Ecumenismo a Venezia, viene ordinato sacerdote il 4 maggio 1996, tre giorni dopo aver professato la sua incorporazione definitiva (voti perpetui) nella Cmv.
Dopo aver trascorso alcuni anni nella comunità di Yopougon e in Italia, nel 2017 don Paolo è ripartito per l’Africa, questa volta in una missione tutta da costruire: a Ouagadougou nel Burkina Faso.