Parigi celebra l’Africa: l’ultima mostra prima della chiusura del Centre Pompidou

di claudia

di Stefano Pancera

Si è aperta mercoledì 19 marzo al Centre Pompidou di Parigi “Paris Noir. Circolazioni artistiche, resistenza anticoloniale, 1950-2000“, una mostra che trasporta i visitatori nel cuore di una Parigi panafricana e anticoloniale spesso dimenticata. L’esposizione racconta come 150 artisti africani, afroamericani e caraibici abbiano ridisegnato la modernità parigina, attingendo a un ricco archivio sonoro e documentale.

L’ultimo grande evento del Centre Pompidou prima della chiusura per una ristrutturazione quinquennale a settembre esplora il contributo “non riconosciuto ma fondamentale” che questi artisti hanno dato alla capitale francese e come li abbia influenzati.

Immaginate di varcare la soglia del Centre Pompidou ed entrare nella mostra Paris Noir: vi ritroverete in un viaggio sonoro che spazia dal 1950 al 2000, tra Parigi, il Senegal, i Caraibi e le strade di Harlem.
Sentirete – ad esempio – le poesie di Ted Joans (artista della Beat Generation scomparso nel 2003) che vi accompagneranno attraverso uno dei cinque percorsi.
Sembra di camminare in una mappa vivente dove Parigi non è solo la Ville Lumière, ma un crocevia segreto di lotte anticoloniali e jazz.

Le 350 opere di 150 artisti del patrimonio africano – molti storicamente marginalizzati – ricevono finalmente il riconoscimento meritato. Alicia Knock, curatrice della mostra, sottolinea: “È una storia mai raccontata che merita di esserlo. La mostra rivela la ricchezza di questi artisti-parigini, spesso anche filosofi e poeti, le cui opere non erano mai state esposte in Francia”.

Tutto nasce negli anni cinquanta con Présence Africaine, la “rivista-rivoluzione” fondata nel 1947 da Alioune Diop, vero “faro intellettuale”. Più che una libreria, era il quartier generale degli intellettuali neri: qui si incrociavano le idee James Baldwin, di Édouard Glissant e dei protagonisti della Négritude, movimento che proclamava “essere neri è una dignitànon una condanna”.

Nella sala introduttiva si respira l’atmosfera della storica libreria di Rue des Écoles, ed anche quella della Sorbona che nel 1956 ospitò il Primo Congresso degli Scrittori e Artisti Neri: 600 personalità nere unite in un evento cardine per la cultura panafricana.

La mostra sfata il presunto declino culturale parigino post-1945: oltre all’asse Parigi-New York, emergono infatti rotte inedite comeParigi-Dakar, Parigi-Fort-de-France e Parigi-Johannesburg.

Negli anni ’90, arriva La Revue Noire: la rivista che ha fotografato l’esplosione dell’arte africana contemporanea. Qui non si parla più solo di pittura, ma di fotografia, collage, performance. Artisti come Chéri Samba ridefiniscono cosa significhi essere africani in un mondo globalizzato. E nel mezzo, opere come Le Garçon de Venise di Diagne Chanel: un dipinto che sembra uscito dal Seicento, ma che in realtà è una bomba contro il razzismo, con quei pavimenti rinascimentali che fanno da sfondo a un grido di dignità. Artisti come il sudafricano Gerard Sekoto o il brasiliano Wilson Tiberio trovarono a Parigi, attraverso la Revue Noire, un laboratorio per ridefinire l’arte globale documentando l’esplosione creativa postcoloniale

Sylvie Glissant, figlia di Édouard Glissant (poeta francese e storico della cultura coloniale), riflette sulle contraddizioni e osserva: «Se Parigi avesse accolto meglio questi artisti, sarebbe ancora un polo artistico di prima classe».

Tra jazz club, i caffè di Saint-Germain-des-Prés e il Pan-African Festival di Algeri del 1969 emerge una Parigi multiculturale che riecheggia lotte globali: dal Maggio ’68 alle proteste contro l’apartheid.

La mostra ripercorre mezzo secolo di lotte per l’emancipazione e ridisegna la mappa culturale della capitale francese, svelando il ruolo centrale degli artisti neri nella costruzione di una modernità anticoloniale.

Dall’indipendenza africana alla caduta dell’apartheid, passando per le lotte contro il razzismo in Francia. Artisti, che sono attori di una Parigi cosmopolita luogo di resistenza e di creazione, contestano con le loro opere il falso mito di una Parigi eclissata nel dopoguerra da New York.

Tra gli artisti più rappresentativi segnaliamo Sekoto, Tibrerio e Joans.

Gerard Sekoto, sudafricano, è stato un pilastro della scena artistica parigina anticoloniale. Grazie alla rivista Présence Africaine, ha trasformato Parigi in un ponte culturale tra Europa e Johannesburg, mescolando nelle sue opere la modernità occidentale con le battaglie per la liberazione dell’Africa.

Wilson Tiberio, brasiliano, incarnò il legame vivo tra Parigi e le Americhe. Fece della capitale francese una base operativa per la diaspora nera, unendo impegno politico e creatività. Le sue opere sono una mappa emotiva che collega i Caraibi, il Sud America e l’Europa, mostrando come l’arte possa essere allo stesso tempo un grido di protesta e un abbraccio tra culture.

Ted Joans, poeta afroamericano, portò a Parigi l’urgenza delle battaglie per i diritti civili statunitensi. Nella mostra, lo senti letteralmente in sottofondo: le sue vecchie registrazioni vocali fanno da colonna sonora a un percorso che mescola versi, attivismo e jazz. È la prova che in quegli anni a Parigi non si dipingeva solo con i colori, ma con tutto il corpo e la voce.

In questo intreccio di rotte e rivoluzioni, la mostra svela una verità inedita: la mappa dell’arte globale si scrive nei corpi e nelle lotte degli afrodiscendenti che hanno fatto di Parigi il palcoscenico di una modernità ribelle.

Fino al 30 giugno 2025 al Centre Pompidou. www.centrepompidou.fr.

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