“Peperoncino” è il soprannome – guadagnato sul campo a motivo dei suoi scherzi appunto a base di peperoncino – di un tredicenne che incontriamo, nei primi anni Settanta, in un grande orfanotrofio nei paraggi di Pointe-Noire (la città congolese che ha dato i natali all’autore; vedasi, tra gli altri suoi titoli, il precedente Le luci di Pointe-Noire). Attraverso gli occhi di Mosè, vero nome, per quanto di molto abbreviato, del ragazzino, incontriamo un microcosmo di personaggi, tra cui spiccano: alcuni compagni di collegio; un buffo prete venuto da di là dal fiume – dallo Zaire – e che scompare nel momento in cui «l’insegnamento del marxismo-leninismo doveva essere la priorità del Paese»; un manesco direttore e suoi accoliti; una misteriosa e materna presenza femminile.
A un certo punto, convinto da una coppia di gemelli più grandi coi quali andrà a formare una banda, Peperoncino fugge dall’orfanotrofio e il suo destino diventa subito quello di un ragazzo di strada. Non per sempre, però: casualmente troverà protezione per un certo tempo presso “Mamma Fiat 500”, la tenutaria zairese di un lupanare, ed è benvoluto anche dal suo giro di ragazze. Poi… E poi altri eventi che ci porteranno fino a un Mosè ultraquarantenne, diventato una persona che… lasciamo naturalmente al lettore di scoprire.
Mabanckou ci regala un’altra di quelle storie e ambientazioni di vite di periferia in cui è maestro. Fa sorridere, fa indignare, mette tristezza, anche. In un’intervista ha dichiarato di non essere pessimista e di aver voluto scrivere «un libro pieno di speranza». Non tutti avvertiranno questa positività. Tutti si troveranno comunque avvinti, almeno per i primi due terzi, dal romanzo, nel quale Mabanckou, tra l’altro, non perde occasione per la satira sociale e politica: etnicismo (declinato soprattutto in chiave alimentare), regionalismo, violenza, corruzione, carriere di amministratori costruite più a gloria propria che per il bene della popolazione… Lo fa parlando del passato ma guardando, ovviamente, al presente; non dimentichiamo come, alla lezione inaugurale del suo corso al Collège de France, un anno fa (per la prima volta in cinquecento anni somministrato da uno scrittore, per di più africano), abbia evidenziato l’assenza in sala di qualsiasi alto esponente politico del Congo, quando erano invece presenti «il ministro della Cultura francese, la segretaria dell’Organizzazione internazionale della francofonia, persino gli ambasciatori della Svezia e dell’Ungheria. Mi vien da chiedermi se io sia franco-congolese o franco-svedese!». Per dire come non corra certo buon sangue tra il potere e uno degli ambasciatori culturali del Paese oggi più autorevoli – a motivo, naturalmente della sua franchezza di parola.
Tornando al libro, che entra di pieno diritto nella narrativa di scuola dickensiana, qualche anacronismo (almeno uno davvero macroscopico) potrà sorprendere il lettore attento. Sviste? Oppure ucronie intenzionali, visto che ci troviamo comunque nel dominio della fiction? Fiction che però non allenta mai la presa sulla realtà sociale. Esplicito e toccante, in proposito, è l’esergo: «In omaggio agli errabondi della Costa selvaggia che, durante il mio soggiorno a Pointe-Noire, mi raccontarono qualche frammento della loro vita e in particolare “Peperoncino”, che desiderava essere un personaggio di fantasia perché era stufo di essere un personaggio nella vita reale…».
66thand2nd, 2016, pp. 221, € 18,00
(Pier Maria Mazzola)