Non è vero che le sanzioni adottate dall’Occidente contro la Russia dallo scoppio della guerra in Ucraina non sono servite a nulla: secondo un report pubblicato dall’Istituto francese di relazioni internazionali le sanzioni europee alla Russia “hanno vanificato le ambizioni africane di diverse grandi compagnie russe”, in particolare nei settori degli idrocarburi e minerario.
Intitolato “Russiafrique, messa alla prova della guerra”, il rapporto evidenzia che le sanzioni hanno reso le imprese russe inavvicinabili e limitato il loro accesso ai finanziamenti internazionali, che sono fondamentali per lo sviluppo di alcuni progetti. Gli obiettivi russi nel settore petrolifero dell’Africa subsahariana, riporta Ifri, sono “ampiamente compromessi”: il gigante petrolifero Lukoil, attivo su diversi giacimenti petroliferi nella regione, si è ritirato da un progetto per sfruttare un giacimento offshore in Ghana, sembra aver abbandonato il progetto di costruzione di un oleodotto in Congo-Brazzaville e sta affrontando gravi ritardi nello sviluppo di un progetto in Camerun. Entrato nei giacimenti del Golfo di Guinea attraverso partnership con aziende europee e anglosassoni, il gruppo Lukoil vede indebolita la propria posizione proprio per via delle sanzioni: è un partner problematico e con limitate capacità finanziarie.
Rosneft, l’altra compagnia petrolifera russa presente nell’Africa sub-sahariana, ha un solo progetto di sviluppo in Mozambico, in partnership con ExxonMobil, Qatar Energy ed Eni. Paradossalmente, gli investimenti russi nel settore petrolifero africano stanno diminuendo mentre il petrolio russo affluisce sempre di più sul mercato africano grazie al suo prezzo estremamente competitivo: in questo mercato, la Russia sta diventando sempre meno un investitore e sempre più un fornitore.
L’espansione delle compagnie russe è sempre più complicata anche nel settore minerario africano, dove la presenza della Russia è storica: mentre alcuni operatori stanno continuando le loro attività nel continente, come Rusal che estrae bauxite in Guinea, o Renova, che estrae manganese in Sudafrica, altri hanno abbandonato i loro progetti o hanno dovuto riorganizzare il loro circuito di produzione. Vi Holding si è ritirata dal progetto di sviluppo di una miniera di platino in Zimbabwe e Nordgold sta raffinando l’oro estratto dalle sue miniere in Guinea negli Emirati Arabi Uniti e non più in Svizzera.
Proprietario di diverse miniere in Burkina Faso, Nordgold sembra essere sul punto di lasciare il Paese dell’Africa occidentale, dove soffre la triplice pressione delle sanzioni, delle richieste finanziarie del governo e della guerra in corso. Ci sono anche forti dubbi sulla capacità della società russa Alrosa di partecipare allo sviluppo della miniera di diamanti Catoca, in Angola, nell’ambito di una partnership con la società di stato angolana Endiama. In Namibia invece il governo ha bloccato l’avvio delle attività della controllata mineraria del colosso nucleare russo Rosatom, Uranium One, per motivi ambientali. Il caso è pendente davanti ai tribunali namibiani.
L’unica eccezione degna di nota è in nord Africa, con il grande progetto nucleare egiziano: l’avvio della costruzione della centrale nucleare è avvenuto il 29 luglio 2022 e il cantiere, il cui costo è stimato in circa 25 miliardi di dollari, dovrebbe essere completato nel 2029. Questo progetto è finanziato all’85% da un prestito dello Stato russo ma ci sono dubbi sulla capacità finanziaria di Mosca di onorare questo faraonico impegno.
Anche la posizione dominante della Russia sul mercato africano degli armamenti rischia di essere messa in discussione: rappresentando il 44% del mercato per il periodo 2017-2021, l’industria russa degli armamenti è sotto forte pressione del conflitto ucraino, che rischia di limitarne le esportazioni.